Regia di Tim Burton vedi scheda film
Forse non bastano i tristi e dolci occhioni che riempiono la scena per convincermi del fatto che Tim Burton sia finalmente tornato a casa. Fagocitato dal suo stesso talento visionario come tra mille ballon d’essai e altri stucchevoli ammiccamenti («l’artista non deve ammiccare» tuona, più o meno, l’arcigno critico Terence Stamp), negli ultimi tempi Burton non ha tonfato semplicemente in virtù del talento di cui sopra, ma ha fatto qualcosa che forse è anche peggio per un visionario come lui: ha annoiato, irritato, replicato se stesso.
Però, attenzione: la riproduzione della propria idea migliore è uno dei temi di questo Big Eyes, che racconta come e perché la talentuosa pittrice Margaret Keane si sia fatta imbrogliare da un marito disonesto e vanesio se non proprio tirannico. All’apice della fraudolenta megalomania, Walter Keane ha il colpo di genio di stampare quante più copie dei quadri della moglie da lui firmati, intuendo che il pubblico è interessato all’emozione dell’opera e non al possedere un originale. Se questo sia vero non lo so e giro la questione a qualcuno più competente di me, ma mettiamola così: e se questo ritratto non fosse altro che un autoritratto di Burton?
Intendiamoci: la storia è interessante, propone di per sé svariate letture (la presa di consapevolezza femminista, il cinismo del mercato dell’arte, il plagio matrimoniale eccetera), la ricostruzione è puntuale e tutto il resto. Tuttavia ho come l’impressione che, giunto ad uno snodo fondamentale della sua carriera, Burton abbia voluto riflettere sullo stato del proprio percorso, da almeno un decennio costellato di adattamenti che ripropongono altri mondi spesso già frequentati e sviscerati tanto nella loro intimità quanto nella superficie (prendiamo La fabbrica di cioccolato, Sweeney Todd, Alice in Wonderland, Dark Shadows: e non si parla affatto di brutti film, specie i primi due assolutamente deliziosi e inquietanti, ma specialmente gli ultimi due niente aggiungono all’autore).
Burton come la Keane privata della propria arte da un approfittatore (l’industria)? Forse no, perché Burton è autore riconosciuto, però questa lettura personale ma non autobiografica mi affascina e mi aiuta a dare un senso a questo prodotto. Che a sua volta scava per arrivare alla radice delle ossessioni burtoniane (diciamo attinenti all’incomprensione delle creature pure e la crudeltà della massa) e dello stile frettolosamente giudicato kitsch eppure da definire attraverso i codici dei sentimenti più che della forma. E allora sì, Burton come la Keane: malinconico sbigottimento nei confronti di un mondo disposto ad impietosirsi ma non a capire. Ma sì.
Il film ha qualche difetto nella prima parte perché sembra un biopic girato da un qualunque regista, nonostante quelle iniziali case pastello che mi hanno procurato un tuffo al cuore per l’evocazione del sobborgo di Edward mani di forbice. Una volta appurato che trattasi di film estremamente personale e coerentissimo pur nella sua “normalità”, basta non aspettarsi i burtonismi (anche se la parentesi del supermercato è gustosissima e poco sviluppata), godersi la piacevole narrazione comunque assai simbolica ed andare al di là della patina (fotografia a colori ad olio di Bruno Delbonnel, scenografie di Rick Heinrichs).
Christoph Waltz è bravissimo, e non è una novità, ma istrioneggia davvero troppo, specie nella seconda parte dedicata al processo (ammicca, ecco). Amy Adams, in improbabile parrucca bionda, è come al solito inappuntabile ma anche un po’ monotona. (Poi qualcuno mi spiega chi ha avuto la bislacca idea di farle vincere il Golden Globe come miglior attrice nella categoria delle commedie). Forse Tim è tornato a casa, forse no o forse boh, però questo Big Eyes è una gradevole parentesi, che in quanto tale impone una nuova fase.
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