Regia di Tim Burton vedi scheda film
American Hustle.
American Idiot.
American Dream.
In quegli occhi così grottescamente grandi, e nella (esemplare) parabola parimenti grottesca e assurda di Margaret Keane - fantasma fisico e mentale ancor prima che "pittrice fantasma" - l'inquieto favoliere dei diversi Tim Burton sembra (far) riflettere l'intero immaginario e l'esistente del multiforme circo a stelle e strisce. La materia del cinema dell'autore di Big Fish e Edward Scissorhands.
Una storia perfetta - (solo) all'apparenza lontana dai consueti sche(r)mi fantasy e da (proto)tipiche bizzarrie assortite -, fatta di irregolari, delle (inquietanti) candide case calate in nuvolette dei zuccherosi anni cinquanta, di fughe verso l'ignoto, d'idilli interrotti, di perdite dell'innocenza e ricadute, di sospensioni dalla realtà, di incubi e metamorfosi. Di lupi cattivi.
Lupo che qui ha le sembianze - volto canagliesco, modi e gesti cartooneschi, ghigno fantasmagorico - del famelico Christoph Waltz: appena entra in scena, si divora Amy Adams (bravissima, come sempre), i trovatelli dagli occhioni tristi stampati ovunque, i comprimari inutili (Krysten Ritter, peccato: è geneticamente portata per i film di Burton), l'atmosfera tutta e il regista stesso.
Tant'è che la domanda ricorrente, anziché essere «Perché gli occhi così grandi?», avrebbe quasi potuto essere: «Perché quel sorriso così grande?».
Fin troppo facile riconoscere (e riconoscersi) nel personaggio di Margaret - nelle sue sventure, nel suo essere donna (in plumbee ere dominate da uomini) e madre costretta a mentire alla propria figlia per un bene (ritenuto) più grande, nei suoi (bi)sogni - la portata "morale" della favola, il carico di emozioni e istanze che una vicenda così incredibile (dai risvolti tragicomici) si porta dietro. Facile ma non certo irrilevante, s'intende, e non priva di momenti importanti. Senz'altro bella e significativa è la sequenza ambientata nel supermercato: la donna vede nelle persone che incontra con gli occhi grandi dei suoi disegni, segno che i semi della menzogna sono germogliati in qualcosa di incontrollabile.
Eppure, il tocco burtoniano semba vivere (ma non si sa quanto volontariamente), ed anzi prendere vita, nel lupo cattivo Walter Keane/Waltz. Lo anima, letteralmente, in scatti e pose sempre oltre qualsiasi parvenza di "normalità", come fosse uno dei suoi prediletti pupazzi in stop-motion, rivelandone l'ambigua natura, misera e geniale: finirà male, molto male, a causa della sua truffa e delle sue azioni, ma è indubbiamente stato un genio per come ha saputo trasformare delle opere senza valore artistico in merce alla moda, vendutissima in ogni versione (prima il disegno originale, poi la riproduzione, poi la stampa della riproduzione e così via). Un vero genio (americano) del marketing.
Un tocco che non basta, però, vista la materia prima e un'attitudine ancorata evidentemente a ben altri livelli (narrativi, estetici, produttivi).
Il finale, con scene del processo eccessivamente grottesche, stridenti, chiarisce definitivamente la dimensione di Big Eyes: è un'opera interessante, buona in alcuni punti e fragile in altri, ma non memorabile. Nessuna scena, difatti, è minimamente paragonabile, per intensità e sublime poesia, all'altro biopic diretto da Burton e scritto sempre dai medesimi autori, Scott Alexander e Larry Karaszewski, ovvero il magnifico Ed Wood.
Un lavoro inevitabimente "minore" (forse già così sentito e restituito dallo stesso regista), impreziosito da due protagonisti che lasciano il segno (ma la cui chimica andava gestita con maggior piglio e cura), e da due ottimi brani, "a tema", composti ed eseguiti da Lana Del Rey (un'altra perfetta per i toni burtoniani), la title track Big Eyes e I Can Fly.
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