Regia di Tim Burton vedi scheda film
Riavvolgendo il nastro della propria esperienza cinematografica, Burton abbandona per un attimo i tristi approdi del gotico di riporto per tornare alla dimensione intima e privata del biopic. Come già in Ed Wood, sono gli sceneggiatori Alexander e Karaszewski il punto di partenza ritmico dal quale erigere la ricostruzione d’epoca. Anni 50 e 60: in un’America a forte timbro maschile, la pittrice Peggy Ulbrich «lascia il soffocante marito prima che lasciare mariti diventasse di moda» e, dal Tennessee, si trasferisce a San Francisco in cerca di arte e libertà. Qui incontra il truffaldino Walter Keane e diventa Margaret Keane, ghost painter condannata ad arricchire le tasche di un consorte che coglie lo spirito disfunzionale del tempo trasformando la pittura in iniziativa di marketing e la verità in menzogna. Burton adotta uno stile classico con narratore esterno (il giornalista del “The Examiner” Dick Nolan), macchina da presa sensibile al primo piano, montaggio attento al controcampo e ricostruzioni meticolose - talvolta pittoriche - di ambienti interni coccolati con movimenti cadenzati e inquadrature fisse. Ma la tentazione fiabesca è forte e, talvolta, spinge la rappresentazione oltre i limiti del realismo in momenti fantasy soggettivi (il punto di vista di Margaret, che trasfigura uomini e donne affibbiando loro gli stessi occhi giganti dei suoi dipinti), in definizioni di personaggi che finiscono pericolosamente fuori registro, con stridenti crescendo di espressionismo prossemico (Waltz, la cui interpretazione offre un pessimo controcanto a una superba Adams in sottorecitazione), e in un processo finale grottesco che sprofonda la confezione classica in una dimensione farsesca tanto innecessaria quanto invadente. La questione identitaria - centrale in un arco narrativo aperto da una firma su tela e chiuso da fotografie legittimanti dei reali (ex) coniugi Keane - fagocita i sottotesti spirituali legati all’adesione di Margaret alla religione di Geova, quelli culturali connessi ai media, infine quelli legislativi dei processi e delle condanne. La riflessione sulla menzogna è articolata e complessa: Walter Keane è il falso, la violazione vivente di un copyright che, oggi, è oggetto di continua violenza, espropriazione, rimessa in discussione. L’aggancio alla contemporaneità avviene alla foce di un torrente di falsificazioni, nel quale l’identità creativa è continuamente sul punto di perdersi nell’oceano della contraffazione. In fondo, di questi tempi, in ogni artista c’è un po’ di Margaret Keane.
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