Il successo in terra straniera non trova quasi mai delle ragioni plausibili ed è per questo che a venire in soccorso alla mancanza di spiegazioni è il famoso detto “nessuno è profeta in patria”. Anche nel cinema capita la stessa cosa, specialmente quando a giustificare il clamore c’è di mezzo un contratto per realizzare un film americano e magari una buona posizione nelle classifiche del box-office locale. Al contrario il regista norvegese Bent Hamer appartiene alla categoria di coloro che hanno fatto il viaggio a vuoto perché assoldato da Matt Dillon per dirigere il film dedicato a Charles Bukowski (“Factotum”) Hamer non era stato in grado di ripetere le buone prove ottenute con i lavori precedenti, fallendo di fatto l’occasione della vita. Oppure no. E’ presto per dirlo e magari il futuro riserverà all’autore scandinavo altre opportunità Nel frattempo il figliol prodigo una volta tornato a casa sembra aver ripreso le antiche abitudini e con il nuovo “1001 grammi” - sottratto all’invisibilità da quella Movie Inspired a cui va il merito di aver portato in Italia il primo cinema di Dolan e a fine mese quello dell’altro desaparecidosBruno Dumont - si rituffa nell’ineffabilità tragicomica che aveva caratterizzato “Il mondo di Homer” per raccontare la crisi esistenziale di una donna che ancora convalescente per la fine del suo matrimonio si ritrova sola e senza prospettive ad affrontare le conseguenze del suo strano lavoro; impiegata presso l’istituto di metrologia norvegese ed incaricata di occuparsi del chilo campione che deve essere portato a Parigi per ottenere la certificazione internazionale, Mary per una serie di circostanze occasionali (tra cui l’incontro con uno scienziato pentito che coltiva il giardinaggio e il canto degli uccelli) sarà spinta a mettersi in discussione a cominciare dai principi che regolano il suo lavoro.
Imbastito su una trama chiamata (nella sua semplicità) a dare coerenza alle variazioni sul tema effettuate dal regista, “1001 grammi” preferisce che siano le immagini e non le parole a cogliere lo stato d’animo della protagonista e a sottolineare il tragico e il comico che investe la sua vita e quella degli altri. Ne escono fuori una serie di quadretti divertenti e insieme drammatici che oltre agli aspetti emotivi della vicenda riescono ad essere rivelatori di una personalità - quella di Mary - altrimenti destinata a rimanere sconosciuta per l’indole introversa del suo carattere. Da qui l’insistenza su ambienti che incombono sulle figure umane per sottolineare i segni di una realtà opprimente e angusta, e ancora le inquadrature dominate dalle geometrie essenziali ma fredde di interni che mettono in luce l’apatia e la solitudine sofferta dal personaggio. Ma la qualità migliore di “1001 grammi” risiede nella capacità di far dialogare gli elementi della trama derivati dalla rigida applicazione delle procedure che scandiscono l’attività lavorativa della comunità scientifica (di cui il regista si diverte a sottolinearne l’ottuso attaccamento alle regole ) a cui Mary appartiene, e la dimensione psicologica della ragazza;, con i primi a fare da specchio alle credenze e ai pensieri della seconda. Il rimpiattino produce un umorismo (nero) che si nutre del non sense delle situazioni di cui Mary è più o meno inconsciamente vittima. Considerato che nella seconda parte l’autismo della storia pur senza perdere il suo tratto dominante si apre alle sorprese dei sentimenti non si sbaglia nel dire che “1001 grammi” altro non è che un film d’amore sotto mentite spoglie. Da godersi dal primo all’ultimo minuto.
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