Regia di Renato De Maria vedi scheda film
Visto ormai quasi un anno fa (era in gara a Venezia 2014 nella sezione “Orizzonti”), La vita oscena che De Maria ha ricavato dal doloroso e intenso racconto autobiografico di Aldo Nove, lo ricordo soprattutto per la vergognosa accoglienza che ricevette in tale circostanza (almeno alla proiezione a cui ho assistito io) da parte di un pubblico talmente insofferente da non lasciargli scampo alcuno, che lo rese oggetto di una incontrollata turbolenza in crescendo fatta di lazzi e di sfottò che inevitabilmente sfociò poi nei sonori fischi (per me del tutto immeritati, così chiarisco subito da che parte mi colloco) che sancirono alla fine uni dei più clamorosi insuccessi “demolitivi” ai quali mi sia capitato di assistere (impotente) nella mia ormai lunga esistenza di spettatore.
Non fu però soltanto il pubblico di quella manifestazione a rifiutarlo, poiché a quanto mi consta, salvo rarissime eccezioni comunque in minoranza (furono davvero in pochi a prendere le sue difese e a metterne in evidenza il suo valore) anche la critica ufficiale emise giudizi lapidari e inappellabili (se non ricordo male, alla chiusura della rassegna, il film non aveva ancora nemmeno una distribuzione garantita in sala nonostante gli accorati appelli della produzione, Scamarcio e la Ferrari in testa).
A oltre 10 mesi di distanza però, qualche cosa si è mosso per fortuna e credo che si stia cercando di colmare il vuoto, perchè il film dovrebbe finalmente uscire nelle sale (in quelle che avranno la voglia di ospitarlo ovviamente) distribuito dalla Film Vision, sbattuto sul mercato insieme ad altri numerosissimi “saldi di fine stagione” e alle tante rimanenze di magazzino che puntualmente ogni anno nell’approssimarsi dell’estate, invadono i nostri schermi a un tanto al chilo (in genere per pochi giorni e con una presenza nemmeno tanto capillare) finendo così per smarrirsi nel marasma generale che spesso rende impossibile ai più anche un doveroso recupero tardivo fra i troppi titoli mandati allo sbaraglio senza alcun criterio.
Temo dunque che l’insuccesso (di pubblico) sarà assicurato (nel senso che riusciranno a vederlo davvero in pochi), e mi dispiace, perché la cosa finirà per dar ragione a che lo ha osteggiato al Lido, e si è rifiutato (a priori?) di capire e di capirlo, come accade quasi sempre quando la nostra cinematografia nazionale ha un sussulto (o meglio un moto di “coraggio” e di “ribellione”) e prova a uscire dai logori schemi della commedia (sempre più becera e ripetitiva) o del film drammatico !d’autore”, tentando la difficile via della sperimentazione (di stile, di linguaggio)sentenziando che si trattava di un titolo che non valeva niente (lui sì “osceno” nella sua delirante struttura) e che era stato persino immeritato il passaporto che gli aveva dato il diritto di essere presente in Laguna.. Un atteggiamento questo purtroppo abbastanza diffuso che impedisce al nostro cinema di “respirare” aria nuova quanto dovrebbe (e forse anche vorrebbe) che brutalmente porta in evidenza la perniciosa abitudine che porta ad accettare (e finanziare) solo un determinato tipo di prodotto dai confini ben definiti e quindi “rassicuranti” che va sul sicuro.
In attesa di rivederlo in sala (ci spero proprio), provo dunque a spezzare una lancia in sua difesa (per quel poco che potrà servire) caldeggiandone la visione rispolverando il ricordo delle forti emozioni che suscitò in me quella ormai lontana proiezione, in assoluta controtendenza rispetto alla restante “rumorosa” maggioranza che mi circondava.
Si tratta indubbiamente di un “oggetto anomalo” soprattutto per il nostro spesso insopportabile provincialismo (come lo sono in genere le opere più sentite e “personali” di questo regista che ama osare nonostante tutto e che proprio per questo al di là dei risultati alle volte davvero “discutibili”, mi sta comunque simpatico): un vero e proprio viaggio nell’abisso di un’anima ferita “scarnificata “ nel profondo , “scarnificare” attraverso il quale De Maria prova ancora una volta a rompere i confini del perbenismo (e del “politicamente corretto”) aggiungendo un altro importante tassello alla sua personale ricerca di una differente e insolita estetica cinematografica che come già in Paz (ma anche parzialmente in Amatemi) non si accontenta del semplice racconto affidato alle parole supportate dalle immagini (e questa volta spesso disgregate fra di loro), ma utilizza anche in forma dinamica tutti gli altri elementi che trova essenziali per la definizione pratica della sua poetica, che spaziano dalla musica alla grafica, dalle arti visive al fumetto e alla body art dentro a un delirio costante di contaminazioni anche stilistiche, che a volte rasentano davvero la provocazione (peccato solamente semmai che questa volta non abbia voluto portarle solo in parte fino in fondo rinunciando – per “scelta” o “convenienza”? – all’”osceno” ostentato delle scene di sesso qui rispetto allo standard dei nostri tempi, decisamente “trattenute”).
Questa volta è stato il libro di Aldo Nove che racconta il suo passato senza pietistiche commiserazioni e la spazzante forza della sua scrittura, a ispirare al regista una sceneggiatura (scritta insieme allo stesso Nove) che più che narrare i fatti, prova a riprodurre, con l’andamento sincopato della poesia e un continuo andirivieni nel tempo, le ferite esistenziali della sofferta esistenza del protagonista, aprendo così nuove brecce nella sua complicata e devastata interiorità giovanile, senza fare alcun sconto o concessione, e scegliendo a sua volta la strada crudele della verità traslata, pur trattandosi di una storia reale che lo scrittore ha documentato con altrettanta implacabile spietatezza, segnata dalla tragica, prematura perdita dei genitori e dal suo conseguente precipitare nell’abisso infinito dell’autodistruzione dentro cui perdersi e tentare così di tenere a freno l’insopprimibile, insopportabile pportabile dolore (la “frattura”) causata da quella precoce, doppia dipartita: ho scelto di fare un film tratto dal romanzo biografico di Aldo Nove - ha dichiarato a Venzia lo stesso De Maria – perché dopo averlo letto, le immagini evocate da questa storia drammatica ma incredibilmente visionaria, mi hanno ossessionato, quasi obbligandomi a farlo. Sono stato soprattutto attratto dalla possibilità di raccontare, sul ritmo di una lingua poetica e capace di immagini spiazzanti, una sorta di odissea pop. Lo skateboard e la figura fragilmente adolescenziale di Andrea (che è il nome che ha assunto il protagonista nella “finzione” cinematografica), viaggiano in un mondo deforme, onirico, colorato, vicino alla grafica del fumetto, poetico e spettacolare insieme”.
La storia è presto detta: Andrea, poeta adolescente, assiste impotente all’improvviso sgretolarsi della sua famiglia: l’annuncio della malattia incurabile dell’amatissima madre (un cancro in fase terminale), e la morte improvvisa del padre.
Rimasto solo, il ragazzo si abbandona a un dolore incolmabile, fino a far esplodere la sua casa per incuria. In ospedale, fasciato come una mummia, in preda a visioni allucinatorie, riceve la visita del suo professore di italiano che gli ha trovato un posto in un patronato scolastico che lo porterà a trasferirsi a Milano anche per gli studi. Invece di frequentare l’Università, Andrea, sempre più oppresso dalla sofferenza, si chiude nella sua stanza circondato da riviste pornografiche e, ossessionato dai versi del suo poeta preferito, Georg Trakl. Il patimento è insostenibile, e decide così di suicidarsi (proprio come aveva fatto Trakl) con 17 grammi di cocaina.
Dopo essersi procurato la droga, stende una lunga e unica striscia e sniffa fino in fondo. Andrea è certo: questa notte morirà in un vortice di droga e sesso estremo a pagamento. E invece sopravvive, invaso da immagini e presenze irreali, attratto dal gorgo erotico che gli sta esplodendo dentro. Sulle ruote del suo skateboard Andrea prosegue così il suo percorso allucinato, e allucinatorio, in cui la visione drogastica si sovrappone alla realtà, deformandola. In attesa di una fine che non arriva e non arriverà mai, per due giorni e due notti attraverserà il fuoco visionario della dissoluzione fra sesso e droga, in un viaggio che gli consentirà comunque di trovare finalmente il senso della sua vita “oscena” (contribuiranno a “salvarlo”, la letteratura e il ricordo della madre, solare hippie, felice di vivere anche con una parrucca - viola - in testa).
L’osceno dunque per Aldo Nove (e poi per De Maria), più delle pratiche autodistruttive definite “oscene” dal senso comune del pudore; è proprio il “cancro” (della madre e della società), insieme a ciò che di terribile e di “irrappresentabile” (e il dolore è irrapresentabile), ci riserva la vita.
Con una materia tanto incandescente, la doverosa scelta del regista non poteva dunque essere altro che altrettanto antirealistica e un andamento che vira verso l’onirico e lo psichedelico (in questo aiutato dalla magnifica fotografia altrettanto iperrealista di un ispirato Daniele Ciprì e dal montaggio astretto creativo e “personale” di Jacopo Quadri (con la collaborazione di Letizia Caudullo).
L’altro elemento straniante( fornito dalla” “separazione” della voce dal corpo) riguarda l’attrettanto straordinaria prova di Clément Métayer (che avevamo già visto e apprezzato in Qualcosa nell’aria di Assayas) che si esprime nella voluta, costante, intensa fissità della sua faccia e nel suo fisico nervoso (straordinarie le sue evoluzioni con lo skateboard) che insieme esprimono una irrequieta disperazione senza bisogno alcuno del ricorrere immediato alla parola (il suo personaggio non ne pronuncia alcuna in diretta) poichè il commento, la descrizione dei sentimenti e di tutto ciò che c’è da dire intorno, è affidato alla “sua” voce (narrante) off (che è poi quella di Fausto Paravidino).
Il film ha momenti di indubbio fascino affabulatorio (il rapporto di reciproca tenerezza fra la madre (a cui da spessore e forza Isabella Ferrari) e il suo povero ragazzo perduto, per esempio , abbacinante “luce” che sembra voler indicare dov’è il pertugio che permetterà l’uscita da quel tunnel di disperazione, e nucleo e nucleo centrale dell’intera pellicola (voce di vita sempre presente, l’ha definita Barbara Corsi).Importante anche la sintesi perfetta che si crea fra le immagini e l’altrettanto “sontuosa”, appropriata e intensa colonna sonora dei deProducers, sullo sfondo di una Milano inedita e altrettanto allucinata come non si era mai visto prima che regge perfettamente alle “incursioni esterne (l’Università la “Sapienza” che è di fatto a Roma, tanto per fare un esempio.
Da vedere e meditarci sopra, insomma (per me ne vale davvero la pena).
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