Regia di Isao Takahata vedi scheda film
Dal racconto leggendario giapponese del secolo XI Takahata ricava un affresco inusuale, dall'apparente e spietata leggerezza visiva.
Il tratto acquerellato dell’ultima pellicola di Isao Takahata sembra seguire l’andamento incostante, abbozzato e lieve di una penna fantasma. Da una famosa leggenda popolare nipponica la storia di Kaguya segue la vita sulla terra di una “pollicina” orientale, discesa sul nostro pianeta dalla luna e rinata, in seguito, nell’incavo di un tronco di bambù. Allevata con amore da due anziani contadini, la bambina vive un’esistenza piena immersa nella quiete della natura per alcuni anni, fino a quando i genitori non si trasferiscono in città. Imprigionata in vesti sgargianti e contesa dalla brama di numerosi principi, “gemma di bambù” sperimenta il dolore della cattività imposta dalla vita sulla terra.
Nella scoperta naturalistica del paesaggio la bambina fa esperienza gioiosa del mondo insieme al premuroso "senpai" (una sorta di fratello maggiore), ma accanto alle marce gioiose ed incalzanti dei bambini, a caccia di guizzi animali e boccioli ancora nascosti, risuona una nota malinconica: canzoni tradizionali, generosamente elargite dalle voci nasali di giovani contadini e da quella dell’apparente trovatella, tagliente ed eterea, raccordo ultraterreno con una dimensione onirica che sarà a poco a poco svelata nella sua crudele e splendida essenza. Gemma di bambù (il soprannome che le viene dato dalla gente del villaggio) è una neonata dalle movenze incantevoli, la cui perfezione misteriosa sgorga dalla linfa polifunzionale della pianta di bambù, simbolo vitale delle foreste orientali. Da quel legno duttile viene letteralmente estratta la ragazza, innaturalmente piccola ma completa come un prodigio, come fosse intagliata artigianalmente dal desiderio dei genitori umani. Il disegno abbozzato e lieve sembra contenere appena l’esplosione di vita che ne accompagna la singolare nascita, un misto di evoluzioni magiche che investono l’ambiente e gli occhi di chi ne osserva la trasformazione da piccolissima donna a neonata. Dopo il ritrovamento, infatti, il tagliatore di bambù e sua moglie assistono alla sua crescita vorticosa ed inspiegabile e al suo farsi “terrena”, mentre il suo peso aumenta e trascina verso il basso la vecchia madre che è riuscita ad allattarla. Pur così radicata nella natura, che la piccola sembra amare tanto, quella crescita è chiaramente il segnale sinistro di qualcosa di ultraterreno. Allo stesso tempo è indice di un dolore compresso e inesorabile e della condanna delle donne, ancora una volta in questa storia impossibilitate ad essere solo bambine. L’”aliena” Kaguya entra a far parte del femminile, del circolo di esseri imperfetti e inanimati nella percezione popolare, esseri simbolo di un’infanzia violata dal mondo adulto o semplicemente dalla malattia – dunque, dall’amata natura. Quella natura, così rivisitata, si configura allora come terra di nessuno popolata da creature angeliche, destinate ad allietare la vita dei propri cari per un tempo brevissimo. La principessa – investitura nominale data dalla prigione dorata degli appartamenti che il padre e la madre le hanno riservato – è infatti richiamata presto alla sua Luna da un corteo di divinità gentili ed inquietanti, e negli ultimi giorni è costretta a mostrarsi sazia dell’amore genitoriale, dolcemente ricambiato nonostante la protezione inconsapevolmente egoistica e castrante che i due le impongono. In quegli istanti è in realtà un essere sfaldato e partecipe di quella cesura lancinante, di quel distacco obbligato sul quale viene poggiata metaforicamente la veste dell’oblio. Dopo essere stata oggetto della brama di svariati pretendenti, portati alla rovina dalla sua bellezza, la principessa ricorda e rinverdisce il suo sogno d’amore con un giovane contadino, sogno sfinito nel vento e nell’immanenza della vita che attende quest’ultimo. Resta il dilemma sempiterno sul conflitto tra passione e dolore, realtà terrestre e dimensione eterea: la vita sulla terra della principessa è forse valevole di essere vissuta, ma lei è costretta ad abbandonarne anche il ricordo. È forse per questo che i disegni di Takahata non riempiono mai lo schermo, non lo saturano mai di colori ma si sfilacciano e si riannodano continuamente, rendendo impossibile la cattura dello sguardo, simili solo a quelli presentati nel precedente lavoro di Takahata I miei vicini yamada del 1999.
Il film del 2013 si afferma così come un’opera d’arte pittorica e una riflessione sul potere delle emozioni e della loro mancanza.
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