Regia di Michele Picchi vedi scheda film
Lupo ha 40 anni e probabilmente altrettante ex che ancora lo chiamano per consigli di cuore, ma con lui non ci stanno più. Si alza alle 5 e mezza per dipingere battendo sul tempo gli altri pittori, ma nel suo attico romano bohémien non ha ancora intinto un pennello nei colori: preferisce andare a messa, «al secondo spettacolo», e sbirciare la suorina di cui è un po’ innamorato. Non è un maniaco, ma un guardone mite: osserva la capitale col binocolo, elenca tipi e topoi di cristallino qualunquismo (i coatti vs. i galleristi fighetti), non è cattivo ma l’hanno disegnato ricco, bello e intellettuale, che colpa ne ha? Tutto questo lo apprendiamo da una voce off incessante (dichiarazione scoperta dell’impotenza di una messa in scena acerba) che copre la quasi totalità dell’esordio di Picchi: un compendio di vizi borghesi visti con occhio altrettanto viziato, facile e ammiccante bignami di pose e tendenze che frulla i testi dei Cani (il protagonista «toglierebbe l’amicizia al 70% dei suoi contatti, ma non vuole vedere ridotto il suo impero») con le toghe svolazzanti di La grande bellezza, di cui questo Diario si pone come una versione teneramente, scioccamente hipster e sentimentale. Giorgio Pasotti (già nella galleria capitolina di Sorrentino) si offre con generosità totale (balla, salta, strabuzza, mima - la voce off gli lascia ben poche righe di dialogo - come una versione al cubo del suo personaggio di Dopo mezzanotte) ma insufficiente a un lungo che ha perso l’occasione di essere un buon corto.
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