Regia di Álvaro Brechner vedi scheda film
Il senso d’inutilità ed impotenza può essere un efficace stimolo all’azione. Può essere la spontanea risposta all’incombente declino, che rischia di far scemare il discorso fra l’indifferenza generale, come naturale premessa all’eterno oblio. Il vecchio Jacob Kaplan è convinto di dover fare qualcosa, prima che la morte chiuda per sempre la storia della sua vita. Ritiene che non possa finire tutto così, in mezzo ad una famiglia normale e mediamente benestante, che frequenta futili feste mondane e a tavola parla dei soliti problemi che un po’ tutti hanno. Non doveva essere quella, la meta ultima del suo lungo viaggio, iniziato tanti anni fa con una fuga attraverso l’oceano, da un capo all’altro del mondo, per sottrarsi alle persecuzioni della Germania hitleriana. Il bambino ebreo a cui il padre aveva affidato una missione di salvezza e di memoria è ora diventato un uomo qualunque, che si confonde tra la folla, e che dunque vuole ad ogni costo distinguersi, mettendo in moto le proprie energie interiori. Non deve imparare nulla di nuovo: basta seguire l’istinto di sopravvivenza, ossia quella spinta innata che, di per sé, è in grado di insegnarci a nuotare. Evitare di essere messo in disparte è come lottare per non annegare: si parte annaspando a casaccio, ma di lì a poco si trova il modo per trasformare quel movimento caotico e disperato in una funzione propulsiva. Non c’è nulla da sapere, nulla da inventare. Bisogna semplicemente desiderare con tutta la coscienza di continuare ad essere attivi e presenti in un mondo che minaccia di fagocitarci. È il caso ad indicare a Jacob la direzione da seguire: basta la fortuita concomitanza tra una notizia ascoltata in tv, riguardante la caccia ad un criminale nazista tuttora rifugiato nel suo Paese, l’Uruguay, ed il racconto di sua nipote, che gli riferisce di un suo conoscente, un anziano tedesco proprietario di un bar sulla spiaggia. Per Jacob il conto è presto fatto: l’avventura può cominciare, e la gloria sembra davvero a portata di mano. D’altronde si direbbe che tutti gli elementi combacino, facendo presagire la buona riuscita dell’operazione: il fatto che il locale del presunto aguzzino si chiami come la nave che, subito dopo la guerra, aveva trasportato in Argentina un gruppo di ex ufficiali delle SS, o la fortuna di poter contare sull’aiuto di un amico ex poliziotto, che i figli, per altri motivi, hanno voluto assegnargli come autista ed assistente. Come talvolta si dice: sembra proprio destino. La commedia può lasciarsi trascinare dalle circostanze favorevoli, che i piccoli incidenti di percorso non riescono a turbare. La fede nel successo è una luce che accende lo squallore della noia, dell’abbandono, del pressappochismo di un’umanità che è composta di deboli, eppure i deboli disprezza. Diversità significa non preoccuparsene, ed andare dritti per la propria strada, senza aspettarsi di essere compresi. Quel che conta non è il giudizio degli altri; l’importante è tornare ad essere se stessi, riannodando quel filo che rappresentava la coerenza dell’io, e che il tempo ha spezzato. Jacob si rivede a parlare yiddish e a ricevere raccomandazioni ispirate alla Bibbia. Si riscopre superstite dell’immane tragedia che ha colpito la sua gente. Si sente parte di un tutto, è chiamato ad accantonare il suo ruolo di anonima comparsa per diventare, in extremis, uno dei protagonisti. Mai, come in questa vicenda, la megalomania corrisponde ad una sana, poderosa sete di realtà: non è infarcita di utopia, non è la folle smania di un meraviglioso futuro, perché è, invece, una pratica interamente finalizzata a portare a compimento il passato, quello che nessuno ama, che ancora fa male, che i più ignorano o considerano superato. Guardare all’oggi con gli occhi di ieri, ripristinando la continuità degli eventi, la consistenza delle identità che qualcuno vorrebbe mascherare o dissolvere: questo è il compito che fa dell’anacronismo una temeraria sfida contro la labilità della memoria. L’impresa è abbastanza bizzarra da essere leggendaria, ma forse troppo donchisciottesca per poter risultare epica: Jacob è piccolo fuori e grande dentro, mentre combatte con la sincera passione e la disarmante modestia del comune antieroe, teneramente orgoglioso di avere qualcosa in cui credere, e che solo a lui appartiene. Questo film inquadra il suo ritratto âgé in una cornice contemporanea carica di superficialità e cinismo, incurante dei grandi drammi della Storia. I contorni netti dell’immagine di lui contrastano con l’aspetto irregolare ed approssimativo dello scenario, i cui colori falsamente allegri suggeriscono l’effetto stordente del brusio di fondo, dei suoni confusi prodotti da voci prive di armonia. Il ristorante è una catapecchia. Il pesce è surgelato. Estrella è la scritta di un’insegna sgangherata, ed anche il nome di una prostituta. Le cose non sono belle come dovrebbero. La mediocrità imperante vorrebbe fungere da invito a desistere. Ma per fermare Jacob altro ci vuole.
Mr. Kaplan ha concorso, per l’Uruguay, al premio Oscar 2015 per il miglior film straniero.
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