Regia di Michael Bay vedi scheda film
Per sublime indifferenza o totale coerenza, niente cambia nel film di Michael Bay, dopo l’apparente ristrutturazione dell’impianto dell’ultimo episodio della saga degli alieni meccanici e trasformisti. Solo una diversa distribuzione dei ruoli, con gli umani sempre sullo sfondo, sebbene in apparente primo piano per lo spunto narrativo, e il cambio di scenografia geografica. I protagonisti in carne e ossa fanno parte di una famiglia naturalmente disfunzionale, monoparentale in questo caso e con i figli con funzione di responsabilità rispetto ai genitori, afflitti da sindrome di Peter Pan e immancabilmente immaturi. Qui la variazione al tema propone Mark Whalberg, cooptato dal precedente esperimento low-cost del regista (Pain & Gain), bicipiti adulti su atteggiamento e mentalità adolescenziale, è uno meccanico dotato e inventore mancato che si scopre capace combattente armato; una figlia, ovviamente più sveglia, e il fidanzato segreto, scavezzacollo e abile pilota. Ad essi, espressione non più di una middle-class urbana ma di uno spiantato inconsapevole neo-proletariato postindustriale di periferia - assecondando la “crisi economica” intravista nei Tg che, si suppone, debba coinvolgere lo spettatore-tipo - si contrappone l’avida multinazionale con contratti militari governativi tesa a sfruttare la nuova contrapposizione tra Stati Uniti e robot (adesso paria, indifferentemente alla distinzione tra buoni e cattivi, tra eroici Autobot e malvagi Decepticon) per capitalizzare sulla lega che li compone e creare nuovi robot più ubbedienti. Impresa fallimentare perché il loro metallo è vivo (nonché dotato di DNA), capace quindi di riproporne l’anima (e l’intenzionalità) originale a dispetto delle forme. Il film vorrebbe continuare a definire la mitologia dei personaggi robotici, scarsa di partenza poiché derivata da dei semplici giocattoli, ma la trama si perde nella solita cacofonia di annientamenti e distruzione, con uno spostamento da Chicago (già devastata in precedenza ma in apparenza tutta già ricostruita) alla Cina, a seguire, metaforicamente, i recenti flussi capitalistici del trapianto di ricchezza dal vecchio occidente al nuovo continente asiatico, e, letteralmente, per ossequiare i nuovi investitori e coproduttori di Hollywood, tralasciando qualsiasi commento sulle eventualità anti-democratiche del regime di Pechino. Nel tentativo di umanizzare i “meccanoidi”, Bay svilisce, come suo solito, gli umani, ridotti a caricature senza divertimento che spaziano dall’imprenditore ossessivo e immaginifico alla Jobs (Stanley Tucci), pronto a repentina redenzione, e l’avido appaltatore politico-militare (Kelsey Grammer, direttamente importato dalla serie Boss, con sguardo truce in dotazione), una serie di sgherri malevoli, nerovestiti e dai lunghi cappotti e dagli occhiali scuri, con figure femminili sempre succinte negli abiti ed esorbitanti nel trucco e varie comparse, più o meno sacrificabili a seconda del tenore emotivo da dare ad una sequenza. A queste figurine, che si stingono al confronto con i giocattoli protagonisti, lo stile di Bay è un caterpillar visivo che omologa ogni suo film, con inquadrature perennemente in controluce e al tramonto - come da trauma di visione prolungata con trattamento Ludovico di Via col vento -, inserti al rallentatore ad evidenziare e sottolineare dettagli, enfasi caricata da musica ampollosa e colori saturi, riprese dal basso con lembi di tessuti svolazzanti, bandiere USA di condimento e la retorica, usata in varie declinazioni, come unica unità di misura della narrazione. Tutto acquista peso senza spessore, ogni cosa viene calcata ma privata di senso, i particolari sono rimarcati seppur scarsi di profondità: è il regno della superficie, il dominio della ripetizione e della riconoscibilità, scambiate per stile e per firma da un regista che si vuole perennemente fuori scala. Ogni particolare è un ingrediente che non arricchisce il piatto ma lo appesantisce, è un elemento aggiuntivo in un impasto privo di amalgama e trasforma la narrazione in paratassi parcellizzata, funzionale ad una fruizione guidata dall’imposizione e mai dalla suggestione, come l’emozione derivata dalle giostre dei parchi d’attrazione, studiate a tavolino per impressionare fugacemente e poi essere serenamente e catarticamente dimenticate. All’insegna dei suoi personaggi, Bay gira film automatizzati e perfettamente riferibili al suo marchio, che non è però mai autorale (a differenza del suo produttore, Spielberg) bensì soltanto distintivo, di una totale, esaustiva, estenuante, onnicomprensiva superficialità perché ‘questo è il mercato dei multiplex, bellezza’, e vince sempre.
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