Regia di Michael Bay vedi scheda film
Che Transformers sia avanguardia industriale è un dato di fatto. Migliaia di persone coinvolte, set globali, budget da 200 milioni di $, botteghini gonfi dagli Usa alla Cina, nuove tecnologie brevettate ad hoc, su cui costruire il cinema futuro: il franchise è pioniere del branded entertainment (Di Bonaventura, produttore, cura per Hasbro pure G.I. Joe), capolavoro di marketing che percorre - come vuole il bignami del contemporaneo - anche le vie del racconto transmediale (via videogame).
E quel che il film propone, quel che propina - al netto del solito conflitto allegorico tra umano e post, cinema analogico e digitale - è ancora lo sconcerto per il frastornante fulgore del movimento, la meraviglia per le torsioni dello scialo di pixel in stereoscopia (stupore che non apre sensi, e non lascia residui emotivi, ma fisici), e un cinema di massa in cui non importa quel che accade (la trama è irraccontabile, la logica è sospesa, le psicologie sono stereotipo o parodia) purché accada con enfasi: Bay accumula un conflitto dietro l’altro come farebbe un bimbo in cameretta (ma certamente non quello di The Lego Movie), racconta come un costruttore di giostre, semplifica il mondo a misure di infante/repubblicano/guerrafondaio, lascia che la sci-fi accompagni il fantasy verso il supereroico, per dire di un popolo che si sente debole, abbandonato, scontento del volere di Dio. E difendere l’uomo che irride. La visione è rifondata solo superficialmente. Il resto è ideologia regressiva.
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