Regia di Philip Gröning vedi scheda film
Ci sono momenti in cui la bambina sembra lei. Piccola e indifesa, molto più della sua figlioletta Clara. Christine a volte si mette in disparte, si rannicchia e piange. Fa finta di essere morta, si chiude in bagno, si nasconde per guardarsi senza essere vista. La sua storia è fatta di pagine inconcluse, che hanno fretta di essere girate, voltate verso la parte del libro che è passata, che ha già detto tutto, che si può comunque dimenticare, anche se non si è capito nulla. Questo film si sfoglia come un collage di episodi letterari, nel quale brevi o lunghi flash sulla realtà si alternano, senza commento, a parentesi poetiche gravate di verità, però private della bellezza del pensiero. Non c’è margine per la speculazione: ogni evento è amaramente chiaro e doloroso, oppure squallidamente futile, l’esistenza di una famiglia si fa faticosamente strada tra le prevedibili ripetizioni di una tiritera stonata, dal tono infantile ma dal suono mortale. Uwe è un poliziotto che non ama il suo mestiere. Al lavoro si annoia, in casa picchia la moglie. È un padre affettuoso ed un marito presente, ma ogni tanto in lui esplode la violenza, verbale e fisica. Il racconto è spezzato dal susseguirsi dei capitoli, tutti rigorosamente numerati da 1 a 59, tutti introdotti da un inizio e chiusi da una fine; il tempo, del resto, non è che una rassegna di situazioni prive di consequenzialità, legate solo dalla persistenza dell’attesa che, in mezzo al tedio, accada di nuovo l’inevitabile. Uwe, a tratti, impazzisce, e non se ne intuisce la ragione. I suoi attacchi di aggressività sono come le erbacce, che crescono a casaccio nel suolo che tutti calpestano, ma di cui nessuno si cura. Che cos’è la normalità, in fondo, se non un terreno vitale abbandonato a se stesso, all’automatismo della routine come alla ciclicità delle stagioni e dei fenomeni meteorologici. Philip Gröning, dopo Il grande silenzio, riprende il tema della quotidianità scandita da un ritmo che sfugge al controllo dell’uomo: un ritmo dettato da leggi superiori, divine o diaboliche, regolate dalla ragione oppure governate dal caos. Ogni giorno, addirittura ogni istante, è comunque un discorso a sé: da un momento all’altro, l’amore può cedere il passo all’odio, e l’indifferenza essere scossa dal fremito di un’emozione, giusta o sbagliata che sia. In questo film è l’intervento della parola – urlata o sussurrata, e spesso cantata - a segnare il passaggio dall’inerzia dell’incomprensione al desiderio di esprimersi, di dare sfogo al proprio senso di impotenza, accompagnando i propri tentativi di fuga con un balbettio che testimoni l’autenticità dello sforzo compiuto. La genesi del dramma è un travaglio che non sa dove andare, che fa soffrire senza indicare uno sbocco, che non vuole preludere al parto, ma solo contorcersi nella sua informe e mutevole angoscia. È una laboriosa sospensione del senso quella che si protrae per due ore e mezza di pellicola, appoggiandosi, di tanto in tanto, sulla transitoria suggestione prodotta dall’apparizione di un fantasma (la volpe, il vecchio) e sul futile diversivo di una filastrocca intonata a fior di labbra. Le intrusioni sono, insieme, fiabesche ed inquietanti (come la macabra favola della Bella addormentata nel bosco), e ci consegnano un’immagine congelata della pausa riflessiva, di quel rimuginare che non fornisce risposte, perché serve anzitutto ad allontanare le domande. La tragedia si lascia ipnotizzare, per un po’, da quel pulsante ronzio di fondo, fino ad assimilarne la ruvida lentezza. Die Frau des Polizisten ci trasporta nel flautato disincanto che, in maniera impervia e sgraziata, prepara l’avvento del nulla: l’interminabile prologo di un epilogo senza catarsi, senza rivelazione, senza morale, che è solo la prolungata eco della rinuncia finale.
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