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La moglie del poliziotto

Regia di Philip Gröning vedi scheda film

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La recensione su La moglie del poliziotto

di ROTOTOM
10 stelle

La moglie del poliziotto è il vincitore del  Premio Speciale della Giuria alla 70° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia Il regista e sceneggiatore è quel Philip Gröning che con Il grande silenzio nel 2005 portò un documentario di tre ore , senza dialoghi, a divenire campione di incassi in patria e apprezzatissimo nelle sale d’essai d’Europa.



Questo perché lo stile di Gröning è asciutto come può essere il cinema di Haneke, anti spettacolare e poco indulgente con lo spettatore ,  pesca negli sguardi e nei gesti dei suoi interpreti la manifestazione fisica della psicologia che anima le loro azioni. Un cinema di ricerca prima che di storia, dove il tema è asse portante ma mai esplicato o banalizzato. Ma ha anche un lirismo che lo accomuna a Malick nella ricerca della poetica di una natura violenta carpita da piccoli gesti, sfumature e silenzi. Un naturalismo d’interni, in una casa che esplode d’amore e implode di violenza, un battito di un cuore malato  alternato  da improvvise inquadrature di personaggi che guardano in macchina o piccoli animali ripresi nel bosco. Nessuna spiegazione, solo una potente messe di immagini – splendide, fotografate meravigliosamente -  che si fondono in un quadro più grande del film stesso.



La moglie del poliziotto è un film perfetto, sospeso tra il documentario antropologico e la fiction, dall’impatto emotivo devastante proprio perché la violenza non è mai esibita. Sono esibite le conseguenze, sottintese le cause ma senza affondare nel didascalico. Gröning vuole che lo spettatore sia emotivamente partecipe del suo film, e che metta la propria storia personale in dissolvenza incrociata con le immagini del film per farsi la domanda chiave: io sono così?



Per arrivare a questo risultato, , il lavoro di ricerca e di studio del fenomeno della violenza domestica, in questo caso del marito nei confronti della moglie, è stato lungo e particolareggiato. Questo ha portato alla particolare struttura del film.
Tre ore di durata frantumati  in 59 capitoli , atemporali, preceduti e chiusi rispettivamente dai cartelli di inizio e fine capitolo. Capitoli brevissimi, anche solo di una inquadratura, di un gesto o uno sguardo. Ma carichi di un significato profondo che attraversa il segno sullo schermo per addentrarsi nella psicologia umana.
La divisione in capitoli, pensata subito in fase di sceneggiatura, è fondamentale per creare la giusta tensione nella storia di  Christine (Alexandra Finder), Uwe (David Zimmerschied) e Clara la figlia che viene interpretata da due gemelle, Pia e Chiara Kleemann. In apparenza una normale famiglia tedesca, lui poliziotto, lei casalinga che si occupa della figlia il cui rapporto amoroso si incrina in un crescente orrore quotidiano e sfocia nella violenza.



 La violenza domestica non è sempre presente, la relazione tra un uomo e una donna è fatta di momenti, anche latenti, dove la violenza non è esplicita ma scorre come una tensione elettrica, invisibile, che somma la carica per poi esplodere.
Ma è fatta anche di momenti di normalità, leggerezza e gioco. Amore, questa è la parola carica di ambiguità che all’alternare la visione di momenti felici con raggelanti parentesi di violenza, trasforma la relazione una gabbia  che imprigiona i protagonisti. Il film quindi è letteralmente “ingabbiato” in una struttura rigida, dalla quale è impossibile fuggire e come nella relazione descritta, la violenza non è sempre tenuta fuori campo ma gli effetti vengono mostrati , senza enfasi , sullo schermo.
Scene brevi, come abbiamo detto, che costringono a guardare ma che non hanno il tempo di far distogliere lo sguardo. Un ricatto ben orchestrato, come è ben condotto il ricatto dell’uomo violento contro la sua donna.  Ci si accorge di come all’escalation ci si adegui, sempre più schifati ma comunque costretti ad una sua visione. Raramente la struttura di un film ricalca la psicologia del tema che tratta. Raramente con questa efficacia che al di là dei premi e dello spettacolo cinema, vale come documento visivo di un lavoro di approfondimento sul campo.



Completamente assente la musica, il silenzio avvolge la scena e solo i suoni diegetici formano il tappeto sonoro su cui si adagiano i personaggi, quindi nessuna enfasi viene aggiunta da suoni che non provengano dalla scena stessa. Poche parole, tutte al posto giusto, tutte terribili . Parole che nella ricerca del regista prima di girare , sono state prese pari pari dalle interviste effettuate a vittime e carnefici nelle strutture delegate all’aiuto delle persone soggette a violenza.



Un particolare plauso va alla casa di distribuzione Satine film che ha deciso, in netta controtendenza  agli usi e costumi nazionali, di distribuire il film solo con i sottotitoli in italiano e lasciando la lingua originale, rispettando quindi il formato voluto dal regista senza stravolgerne il senso. E’ importante questo aspetto perché il suono gutturale del tedesco, che si chiude sempre più su una rabbia senza senso, si adatta in modo straordinario alla storia. L’implosione della famiglia, fotografata meravigliosamente in interni di una casa anch’essa tortuosa, fatta di piccoli ambienti, un po’ claustrofobica, verso una fine che è palese fin dall’inizio , è percepibile in ogni aspetto della vita che conduce.

Meravigliosi gli attori, soprattutto le due bambine che interpretano la figlia Clara, che rappresenta l’aspetto dell’innocenza perduta, la vittima principale delle colpe dei padri incapaci di gestire il sentimento d’amore. Proprio a lei viene riservata l’ultima raggelante inquadratura che rovescia sullo spettatore il dubbio che quella messa in scena sia qualcosa a lui molto vicino. La risposta soffia nel vento, direbbe Dylan, soffia anche nei cuori, direi io.



(Rimando alla playlist con l’intervista al regista  //www.filmtv.it/playlist/50934/la-moglie-del-poliziotto-intervista-a-philip-grnin/  )

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