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Capitan Harlock

Regia di Shinji Aramaki vedi scheda film

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La recensione su Capitan Harlock

di (spopola) 1726792
8 stelle

Il film è una labirintica e suggestiva riflessione sulla scansione del tempo e la sua inafferrabilità. Ha un sottofondo narrativo molto stimolante dunque che supera la mera spettacolarizzazione della forma e che si interroga - utilizzando la metafora della finzione - sulla fragilità dell’eroe e sul suo isolamento.

Come potrebbe essere sintetizzato in poche parole il senso e le emozioni che suscita il Capitan Harlock portato adesso sul grande schermo con la regia di Shinji Aramaki?

Sicuramente come uno spettacolare, ambizioso e riuscitissimo divertissement in immagini che sfrutta in modo molto suggestivo (e con ottimi risultati espositivi) le possibilità e i moduli espressivi offerti dalle tecnologie più avanzate del digitale. Il film è stato infatti realizzato in CGI, una modalità di straordinaria presa, che oltre ad esaltare la fluidità dei movimenti, rende quasi di carne le figure (il suo realismo iconografico è sorprendente) grazie anche a una inusuale profondità di campo dovuta all’utilizzo di un 3D (frutto del magistrale lavoro della Toei Animation) creativo e inappuntabile che non si limita più ad essere un semplice accessorio finalizzato a sorprendere lo spettatore, ma che diventa invece il fondamentale e necessario elemento di raccordo per riprodurre, rendere credibile e persino eccezionale (come se fosse interpretata da veri attori anziché disegnata), la visualizzazione aggiornata di un fumetto (e un cartone animato) davvero di culto per intere generazioni, come quello nato nel decennio dei ’70 dalla inesauribile fantasia creativa di Leiji Matsumoto. Un 3D – ribadisco - nitido e accuratissimo che amplifica il fascino avvolgente di un’avventura così avvincente (spero non solo per chi ha vissuto in diretta quella mitica “stagione” anche televisiva del passato) da non lasciare alcun momento di pausa né di allentamento emotivo. Non è assolutamente solo estetica però, ed è bene precisarlo subito a scanso di possibili equivoci (anche se il suo  passaggio dall’ultima Mostra del cinema di Venezia, sia pure fuori concorso, è già di per sé un elemento che costituisce un importante riconoscimento “a priori” del suo valore intrinseco che non dovrebbe aver bisogno di ulteriori elementi chiarificatori in tale direzione). Il film (che si eleva anche figurativamente di molte spanne al di sopra di gran parte degli abituali standard del settore) si propone infatti anche e soprattutto come una labirintica e suggestiva riflessione sulla scansione del tempo e la sua inafferrabilità, un sottofondo narrativo questo, decisamente molto stimolante che supera la mera spettacolarizzazione della forma nel suo  andare ben oltre i limiti e i confini del linguaggio più scarno (anche se altrettanto efficace) utilizzato dal fumetto e dalla serie (da cui deriva) fino a trasformarsi in un’opera che si interroga (ovviamente utilizzando la metafora della finzione) sulla fragilità dell’eroe e sul suo isolamento.

 

Il suo teschio è una bandiera che vuol dire libertà”: iniziava così la sigla della gloriosa serie storica trasmessa a suo tempo su Rai 2 che metteva in scena le gesta di un tenebroso anarchico spaziale come Harlock che a bordo della sua astronave pirata Arcadia cercava di mettere in salvo il mondo. Lo ricorderanno in molti, e si inteneriranno pure nel ricordare un eroe che è stato probabilmente il simbolo di quella che forse può essere catalogata come una delle ultime (se non proprio l’ultima) utopie umaniste del secolo appena trascorso.

Qui comunque non ci troviamo certamente di fronte a una delle tante operazioni “nostalgia” così in voga in tempi come questi piuttosto privi di ispirazioni genuine che cercano di conseguenza di rimestare nel passato, anziché sforzarsi di provare a esplorare nuovi territori, perché intendono andare sul sicuro e sanno che così è più semplice (ri)creare un’empatia indotta con lo spettatore altrimenti molto più difficile (e incerta nel risultato) da stabilire.

Il lavoro fatto da Aramaki a cui ha collaborato attivamente anche Matsumoto, è infatti una “rivisitazione” per più di un verso autonoma, che presenta molte variazioni rispetto all’originale (e che potrebbe per questo essere valutata persino da qualcuno come un discutibile tentativo per tentare di passare di mano il testimone). A mio modesto avviso però, se proprio di adesione a una moda si dovesse parlare, ci si potrebbe riferire (ma solo “grosso modo” e in senso lato) più che a quella dei reboot (dei quali ha solo qualche larvata caratteristica), a quella ben più evidente (ma altrettanto “incerta”), degli spin-off, poiché il leggendario Capitan Harlock è indubbiamente ancora il nome di cui si fregia il titolo della pellicola, ma questa volta è un personaggio molto più defilato, relegato in un ruolo abbastanza secondario, senza però che venga per questo sacrificato un solo briciolo della forza e del fascino di una figura che nonostante siano ormai intercorsi 35 anni dalla sua creazione, non ha certamente perso il suo carisma e il suo look anche se ormai è disilluso e ha smarrito molto dell’aura romantica della versione originale (Leiji Matsumoto).

Questo suo essere stato spostato (apparentemente?) in secondo piano (pur restando centrale rispetto alle dinamiche del racconto), contribuisce semmai ad amplificare ulteriormente la sua forza attrattiva e l’alone di mistero che lo circonda da sempre, poiché non viene certo sminuita la sua dimensione di coraggioso paladino. Il suo farlo diventare una volta tanto subalterno, è dunque  finalizzato soprattutto a far emergere altre figure che si sono invece “guadagnate” l’onore del primo piano, e che diventando il perno del racconto, assurgono al ruolo di veri e propri protagonisti (mi riferisco soprattutto al giovane Logan, infiltrato nell’Arcadia proprio con il compito di uccidere Harlock, ma anche a suo fratello Ezra, l’ufficiale disabile che è a capo della Costellazione Gaia che domina e tiranneggia la terra).

Gli incalliti fans di una volta potrebbero proprio per questi cambiamenti sentirsi un poco traditi (e sarebbe un errore poiché c’è ancora il suo creatore Matsumoto a fare da garante, e lui sa perfettamente  che non ammetterebbero assolutamente che qualcun altro soppiantasse davvero Harlock e pretendesse di prendere il suo posto). Si tratta dunque soltanto di un mutamento di prospettiva (un restyling?) per movimentare un racconto in cui il nostro mondo è ancora alla mercé di uno sfruttamento talmente selvaggio e incontrollato che potrebbe portarlo alla sua definitiva distruzione, e che di conseguenza, ha ancora un gran bisogno quasi disperato di quell’eroe salvifico temprato di coraggio e dedizione che lui incarna: Harlock per me rappresenta l’essenza dell’eroe. (sono le parole (e la garanzia) del regista, ben documentate dall’intervista fatta da Lorenza Negri pubblicata su Film Tv cartaceo n° 52, l’ultimo del corrente anno): Volevo riportarlo sugli schermi ma per farlo era necessario aggiornarlo. Per questo la storia è stasa modificata. In questa versione la mitica figura è stata trasformata in una creatura immortale – e quindi più leggenda che uomo – che (…)in questa mia lettura, trascende tempo e spazio, e che di conseguenza nemmeno la morte può toccare.

 

Dunque Capitan Harlock è questa volta solo il deus ex machina dentro ad un racconto fantascientifico che potremmo definire di formazione (quella di Logan, appunto) che analizza e sfrutta il potere taumaturgico della memoria (e alla stesso tempo anche il controllo emotivo dei sentimenti sempre necessario) all’interno del quale il glorioso capitano combatte ancora il dominio intergalattico della coalizione Gaia continuando ad attacce e saccheggiare le navi nemiche.

Il malvagio Ezra, l’ufficiale a capo della coalizione che domina la terra e comandante della flotta avversaria, intende neutralizzarlo definitivamente, e ordina per questo a Logan, suo fratello minore, di imbarcarsi sull’Arcadia per uccidere il capo della rivolta. Il giovane subisce però il fascino di quello che dovrebbe essere il suo nemico e a poco a poco finisce per comprendere le ragioni dei ribelli. Svela di conseguenza le trame sotterranee del fratello fatte di inganni e di bugie e abbraccia  la causa di Arcadia, scatenando così l’ira di Ezra, che darà origine a un duello ferale e dall’esito imprevedibile.

Romantica ed affascinante nella grandiosa spettacolarità della sua concezione che non è sicuramente inferiore a quella del più pompati blockbuster americani, la pellicola si conferma  così come un’avventura filosofica e fortemente simbolica concentrata non soltanto sul peso morale della responsabilità dell’eroe, ma anche e soprattutto sulla indispensabile necessità della trasmissione e il  passaggio di valori, principi e conoscenze da una generazione all’altra, un percorso iniziatico che finisce per incrociare nel suo emblematico sviluppo narrativo, culture differenti, ma fra loro complementari che riuniscono e compendiano leggende e racconto orali, il tutto riletto attraverso un’attenta analisi psicologica dei caratteri, qui molto ben delineati. Si procede insomma per associazione di idee  nel parlare della forza catartica dell’immortalità e discernere sul percorso circolare che lega l’inizio alla fine di ogni cosa, e questo senza nemmeno utilizzare un pizzico di retorica, ma al contrario asciugando magistralmente sia la nostalgia che la commozione, oltre che la negatività perniciosa dell’eloquenza oratoria, sempre in agguato quando si tenta (come in questo caso) di coniugare le paure e le angosce del presente con le speranze rigeneratrici di un (im)possibile futuro: in questo, è ancora e sempre alla figura di un Harlock ossessionato da un’idea non solo di perfezione oltre che estetica anche utopistica, ma anche da una percezione della giustizia indubbiamente più teorica che pratica, che è affidato il compito di sintetizzare il legame indissolubile fra morte e rinascita.

Nell’universo visionario del suo autore, in talea prospettiva è dunque proprio lo spazio che diventa il necessario (e giusto) punto di incontro di quei valori espressi attraverso un viaggio che sfiora la contiguità di mondi, epoche e tempi in movimento, nella costante ricerca di quegli indispensabili equilibri naturali di sopravvivenza che l’egoismo umano sta destabilizzando (il che conferma la complessità di fondo di questa operazione molto ben congegnata e persino un tantino prolissa, se proprio si intende ricercare il pelo dentro l’uovo).

Il film è ricco di omaggi all’immaginario visivo di ciò che ormai è diventato storia e leggenda (non solo cinematograficamente parlando) che vanno dal fascino della ricerca dell’ignoto, esaltato dai romanzi di Julius Verne per arrivare all’inventiva “fantasiosità” digitale di Guerre stellari, passando però anche nei pressi di Star Trek e dei suoi leggendari esploratori (il tema del viaggio appunto, che ovviamente non è solo spaziale).

Il regista, utilizzando anche le suggestioni derivate dalle variazioni cromatiche della pellicola che vanno dal blu al nero, sembra così voler privilegiare le atmosfere un po’noir fatte di dubbi e di incertezze (soprattutto nell’assumere decisioni sempre necessarie e spesso improrogabili), ed è bravissimo nel mettere a fuoco la doppiezza dei comportamenti e le contraddizioni insite proprio nell’esercizio punitivo della vendetta.

Con l’obiettivo (pienamente raggiunto) di dilatare ogni sequenza al fine di rimarcare attraverso questa procedura la forza e gli insegnamenti del passato, Aramaki sceglie di conseguenza di corredare il tutto con dialoghi sinteticamente didascalici che lo aiutano molto bene a indagare e mettere a fuoco le tematiche che gli stanno più a cuore, che sono appunto quelle dello scambio d’identità, della capacità di comprendere ed accettare i propri limiti e della vocazione al sacrificio: su queste costruisce un apologo che mette in evidenza il bisogno “popolare” di legarsi ed appoggiarsi  all’immagine dell’eroe, per sentirsi protetti e meno vulnerabili.

La forma che si fa stile, ai frequenti primi piani ravvicinati e strettissimi, indispensabili per evidenziare e sottolineare le esitazioni e le perplessità dei protagonisti, alterna improvvise impennate e lunghe carrellate molto coinvolgenti: un altro valore aggiunto all’interno di un’opera  così sanguignamente genuina, che sarebbe davvero un’eresia considerare un tradimento dell’originale, poiché ne rappresenta semmai una interessante amplificazione che ne ricalca e porta alle estreme conseguenze rendendolo addirittura più attuale, lo spirito libertario che non era solo appannaggio della serie di riferimento, ma ricorreva come tema costante  anche in tutte le altre pellicole utopistiche e lisergiche che hanno costellato e reso irripetibile con i loro ideali di speranza, il decennio dei ’70 del secolo scorso. In più, il film attraverso alcune figure  secondarie come  quella della creatura senza bocca che proviene dal pianeta Yura, ripropone alle coscienze (ancora in forma mediata e metaforizzata) il problema dell’incubo nucleare e delle sue conseguenze, sempre fortemente presente nell’immaginario nipponico dopo Hiroshima e Nagasaki , ma che a seguito della tragedia di Fukushima è tornata purtroppo di grande attualità ed è una mina vagante tutt’altro che disinnescata. anche se colpevolmente se ne parla troppo poco perchè si preferisce minimizzare e far sembrare che tutto sia tornato quasi a posto. 

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