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Amour fou

Regia di Jessica Hausner vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Amour fou

di lostraniero
8 stelle

Kleist come Kafka? K & K, d’altronde. E la Hausner come Rohmer, in una nuova ricerca di translinguismo che media cinema e teatro, e pittura? O dovremmo considerare la nostra ineffabile Jessica come l’altrettanto impagabile Bellocchio? Nell’immobile intento di ‘struccare’ il volto della fotografia filmata, e riportarla così ad un’espressione chiara di melodramma?

Alla fine, ma anche nel bel mezzo della visione di quest’opera della quarantaduenne regista viennese, i dubbi si accavallano e – per gentile concessione della nostra anarchica voglia di divertimento – partoriscono tanti bei piccoli luoghi non comuni. Tante perline sul fondo del nostro vedere, così come tanti rumori di fondo nel nostro sentire. E forte è la sensazione che la ‘loro’ parola (quella dei K & K) non abbia di certo perso il round con la ‘nostra’ immagine (quella del regista di “La marquise Von O…”, dell’enfatico romagnolo del “Principe” e, perché no poi, quella di questa donna algida e pignola che costruisce storie in movimento). Anzi. Che sia forse la incredibile caratura elegiaca (romanticissima, direbbe qualcuno), drammatica e grottesca nel suo insieme di una poetica come quella di Heinrich von Kleist, che di per sé non solo si autopreserva ma conduce qualsiasi altro tipo di arte del racconto che da essa prende spunto, verso una combinazione felice. Poco avrà fatto allora la regista per raggiungere la piena padronanza di questo lavoro cinematografico? Non proprio. Essa vi ha donato il seme della concupiscenza. Ha seminato il ritmo fulmineo dell’opera, che traversa per scene e non attraversa per gesti e movimenti cinetici. E tutto questo, mi pare, lo abbia pure imbrattato di un ‘senso dell’umore’ davvero raggelante. Equivoco, addirittura.

Quindi Kleist come Kafka. E Hausner come Kleist. Quindi Hausner come Kafka. E se i personaggi (veri) di questa storia (veritiera) non hanno corazza di scarafaggi, e non guardano tremanti per strada chiedendosi delle ombre che si gonfiano dietro di loro, se hanno libero accesso ai castelli e parlano di comodi viaggi a Parigi e non di oscure cambuse per andare all’America, rimane il fatto che essi affondino nella colpa (di vivere, di amare, di morire) più di quanto il ‘ballo dei pupi del mondo’ voglia far vedere.

 

 

“La paziente soffre di un’ulcera incurabile, o tumore, con presenza di fluido nel basso ventre. L’ulcera, o tumore, ha un diametro di circa due pollici ed un volume pari a quello di una mela verde, o di un’arancia. Considerando il tipo di ulcera, o tumore, ciò significa che è già in uno stato avanzato. Esso è quasi certamente presente nell’addome della paziente, già da parecchi anni; possiamo anche ipotizzare, con ragionevole lucro, che quest’ulcera, o tumore, è la causa degli svenimenti e degli spasmi di cui la paziente ha sofferto in questi ultimi mesi. Secondo il nostro parere, la paziente deve essere trattata seguendo i consigli del medico di famiglia, poiché noi non indichiamo alcun trattamento speciale e né prospettiamo cure risolutive”.

Quanto scrive, il 7 maggio del 1811, il dottor Kienast, illustre rappresentante della Giunta Medica della Carità di Berlino, sul caso riguardante la nobildonna Henriette Vogel, è lo spunto che dà svolta all’intera vicenda. Ed è ciò che fa il paio con la sofferenza psichica che in quei giorni, pervadeva ed agitava Kleist.

Alla cugina Marie, amore dichiarato della sua vita, questo è infatti quanto le comunica il poeta il 9 di quel maggio, e cioè due soli giorni dopo la refertazione del tumore, o ulcera incurabile, alla signora Vogel.

“Sento che il mio animo è ormai preda di turbamenti i quali, sotto la spinta delle avverse condizioni in cui vivo, vanno sempre più peggiorando, e che un godimento veramente sereno della vita, se un giorno mi fosse concesso, potrebbe forse risolvere con facilità e armoniosamente. In questo caso lascerei forse riposare l’arte per un anno o più e, salvo alcune scienze nelle quali ho ancora qualcosa da apprendere, non mi occuperei d’altro che di musica”.

Dunque, il poeta e drammaturgo Heinrich von Kleist da un lato, alla spasmodica ricerca di un’anima gemella che voglia ‘suicidarsi’ con lui in nome e per conto del vero amore romantico. Dall’altro, una signora della buona borghesia berlinese, moglie di un integerrimo contabile della Banca Agricola, che sta vivendo gli anni più sereni della sua vita e che non sa, come non lo sappiamo noi spettatori, che sui riflessi degli specchi (un inizio quasi psicanalitico, dalla sceneggiatura curatissima), nei volteggi di un valzer, nell’austerità di un giardino appena cigliato dalla grazia della natura, è verosimile che si nasconda la più grande truffa che un uomo possa ingegnare ai danni di una donna. L’amore. O ciò che per esso, ognuno ha la malignità di contrabbandare.

In mezzo, un tempo ed una società drammaticamente avvinghiati alle apparenze e ai conflitti di queste sembianze. Con il ‘francesismo napoleonico’ che ne ha invaso non solo le contrade e le città, ma anche la moda, la cultura, perfino la politica. Un sistema feudale, quello prussiano, inorridito dal vento ‘jacobino’ e dalle sue ‘perversioni sociali’ come il censimento delle proprietà e l’applicazione delle tasse per tutti. Nobili e poveri, nullatenenti e tuttotenenti. Una struttura che ben presto si riorganizzerà e che porterà, a Waterloo e dopo Waterloo, un suo contributo per una restaurazione tanto icastica quanto allusiva era parsa quella sorta di rivoluzione. Tornano gli scarafaggi del resoconto umano. Kafkaniamente parlando.

 

 

Il caso assume il corpo di un thriller dell’anima, e l’animo recede ad un patema corporale desiderante. Ciò che ha osato dire la brava Jessica Hausner con questo suo film, è la soluzione dell’enigma – grezzo ed etereo, combinatamente – del suo esordio (quel “Hotel” del 2004, biasimato dai più ed apprezzato dai pochi irrazionali che abitano le platee cinematiche). Il ‘killer’ è ‘inside me’, e la prospezione carsica della ‘grotta’ (che poi verrà addobbata di simboli catartici e profumata dall’incenso del business cattolico nel successivo “Lourdes) rappresenta alla fine lo stato iper-cosciente dell’uomo. Di ogni uomo, di qualsiasi. Ottocentesco o novecentesco, o post moderno che dir si voglia.

Al tempo del racconto raccontato in “Amour fou”, Heinrich von Kleist aveva già percorso a piedi mezza Europa, portandosi dietro il suo amico più fidato, quell’Ernst von Pfuel che – qualche anno dopo –, dirà mestamente dell’esperienza: “Non mi ero reso conto che stavo camminando con lui sulla strada infernale; ogni campo di fiori che incontravamo mentre in me ispirava la bellezza e l’entusiasmo, in lui scatenava il buio della morte. Ogni città che calda si apriva al nostro viaggio, mi salutava con le sue case, i suoi gerani, le piazze ed i mercati. E a lui lo estraniava. Se lo infatuava era solo per la geometria inquieta del costruito, per il brulicare dei vicoli che portano dove si vuole o dove non ci attende che il mistero di ciò che non si conosce. Era sceso come in una grotta, un antro dove nessuna mente umana poteva più seguirlo”.

La figurina incerta e soave del poeta attraversa anche questo film, come quella di un oscuro assassino in cerca di sangue da offrire al suo gesto d’amore. Bussa alle porte il commesso viaggiatore – di una di quelle ditte surreali che avrebbero ben figurato in qualche racconto del praghese –, con la sua piccola valigia in mano e l’espressione ebete in costante attesa di un cenno, una frase, uno sguardo di assenso della vittima. Di qualcuno che muoia con lui, facendosi sparare al cuore. Quando si fa aprire dalla serva di casa Vogel, il signor Friedrich Louis ne nota la comica postura ed il fardello di cuoio beige in bella vista. “Cosa tiene nella sua valigia? Delle pistole?”, chiede ironico non sapendo di aver indovinato. Kleist risponde in catatonia. “No. Catturo farfalle”. “Farfalle? A novembre?”.

 

 

In “Amour fou” c’è una scena riassuntiva, icona di un certo bel cinema europeo che non batterà mai cassa ma ci farà interpellare spesso il nostro ceppo emotivo, che – nemmeno a metà film – rapisce il suo senso e ce lo rende plasticamente. Un ‘arzt des geiste’, impacciato e sudaticcio, tenta di estrarre fuori dalla psiche della signora Vogel quel male interno che la sta divorando. Tratteggia con le mani i contorni della donna, seduta in penombra con gli occhi chiusi ed in preda ad un flusso di immagini e di pensieri; più volte e più volte ancora. E, dal gesto, pare raccolga quanto di malvagio ci sia nella sua mente, quanto di negativo abiti la sua anima per gettarlo via agli angoli della scena.

Ecco, mi piace ricostruire quella inquadratura a modo mio. Che sia il cinema della Hausner a farci socchiudere gli occhi e, nell’intimità di una visione, cerchi di mesmerizzare le nostre ancestrali convinzioni sul torto e sul vizio, che provi ad evitare il crimine dell’amore per il nulla ipercinetico, iperbolico ed iperbarico di tanta arte cinematografica odierna. A dirci che bisogna ritrovare il senso del vedere, più che lasciarsi andare alla visione che calamita i sensi. Perché se un film è un’allucinazione, una fata morgana deve essere e non un plagio.

Il colpo di scena finale, il tocco da thriller che chiude la tragedia di un’intera società e di una sola grande corrente del ‘sentire umano’ – il romanticismo che, velocemente, regredì in surrealismo e rifiorì nell’esistenzialismo –, no, quello non lo accenno neanche. Perché il film, che quello è che importa, ve lo dovete vedere voi. Da soli. Almeno che non troviate un’anima gemella, pronta a morire di cinema per amor vostro.

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