Regia di Carlo Mazzacurati vedi scheda film
Nel giorno in cui il Sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici ha assegnato al film un notevole riconoscimento quale il Nastro d’argento dell’anno, pare opportuno parlare de La sedia della felicità, l’ultimo film del mai troppo rimpianto e prematuramente scomparso Carlo Mazzacurati. È inevitabile che il film, al di là dei suoi valori, diventi il testamento artistico di un regista tanto discreto quanto importante per capire l’evoluzione di un certo cinema d’autore tra gli anni novanta e i primi del duemila: un cinema che parte dal basso senza la retorica dei poveri cristi, ma che pone proprio i poveri cristi (che siano essi piccolo-borghesi o morti di fame) e le relative peripezie al centro della scena, che ha saputo creare una piccola mitologia del nord-est lontana dalle tinte fosche, grigie, se non addirittura incazzate, tipiche di molti film ambientati in quel mondo lì, abitato di gente che s’è fatta da sola, cooperante ma anche aspra.
Questa Sedia della felicità, che alla sua base ha un celebre racconto della letteratura russa, è la rappresentazione più colorata e malinconica di quella commedia umana settentrionale di cui Mazzacurati è stato cantore eccelso, con un occhio alla nostrana tradizione della commedia, tanto che, forse, per quel suo mettere la ricerca del tesoro al di sopra d’ogni cosa, mossi essenzialmente dalla fame e dalla disperazione, non sarebbe dispiaciuto ai mostri sacri del genere (dai Monicelli agli Scarpelli e via dicendo). È l’espressione di un cinema riconciliato ma che non depone le armi, che pratica la leggerezza in nome di quella felicità, comunicata sin dal titolo, non necessariamente legata al denaro: quasi a sottolinearne la dimensione fiabesca, al netto di medium (un grande cammeo di Milena Vukotic) ed epifanie, è indicativo che il tesoro della vecchia bandita (altro gustoso cammeone di Katia Ricciarelli) sia simile ai tesori della letteratura per l’infanzia (gioielli, collane, anelli).
Il film, insomma, non va letto secondo i canoni della commedia realistica o civile, essendo una favola moderna che prende a pretesto la ricerca del tesoro per proporre una riflessione, delicata ma non frivola, sui sentimenti ai tempi della crisi e sull’esigenza di creare legami tra gli uomini per reagire alle storture della vita. La sedia si eleva, così, quasi involontariamente, benché Mazzacurati sapesse di essere giunto alla stagione finale dell’esistenza (la dedica iniziale alle figlie è dolcemente significativa), a toccante film testamentario in cui le linee guida del suo cinema sono tracciate con sorridente gentilezza al commosso spettatore. Accanto agli eccellenti Mastandrea e Ragonese, lasciano un affettuoso saluto gli amici che hanno condiviso col regista un set o qualcosa di più (Battiston, Albanese, Bentivoglio, Orlando, Citran, Paiato, Balasso, Messeri; il produttore Barbagallo, gli sceneggiatori Leondeff e Pettenello, il direttore della fotografia Bigazzi, lo scenografo Basili, il montatore Benevento).
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