Regia di Carlo Mazzacurati vedi scheda film
L'eterna condanna del cinema italiano medio è proprio quella di restare "medio", entro i suoi svariati stilemi, sempre limitato ai suoi ritmi, ai suoi toni, ai suoi vezzi più ridondanti. Certo, considerando la morte di Carlo Mazzacurati, avvenuta subito dopo le riprese di questa sua Sedia della felicità, lo sguardo dello spettatore si fa più tenero e meno impegnato, ma il film, in sé e per sé, pecca fortemente di provincialismo e di una forte componente di "fine a se stesso" che vive tutta nel grottesco della trama. La ricerca del tesoro nelle sedie disperse per il Veneto è una vera e propria gold rush che esaspera lo spettatore come esaspera i protagonisti, perché passa tristemente sempre dagli stessi difetti tutti italici (primi fra tutti, l'avidità, di cui non sono privi neanche i protagonisti, Mastandrea, la Ragonese e Battiston, prete con l'alibi dei bambini che muoiono di fame in tutto il mondo). Difetti italici, quelli raccontati da Mazzacurati, che non hanno né vogliono avere alcun intento sociologico, ma vogliono essere un puro ingrediente di un divertissement che ha tutte le carte in regola per divertire ma per fare davvero poco altro. Lo sguardo al Veneto e al Nord-Est italiano, d'altro canto, è tenero, incantato ma fin troppo attaccato alle sue macchiette per intenerire altrettanto lo spettatore, e gli stessi personaggi protagonisti, mossi da motori a dirla tutta spaventosamente avidi, sono disposti all'atto più grottesco per procurarsi il denaro ma sono anche oggetto della totale simpatia dello spettatore, tanto che non si fa fatica ad essere contenti per loro nel caso in cui si troveranno i soldi. Peccato che Mazzacurati si perda fra caricature multiculturali (francamente evitabili le digressioni cinesi e indiane) e riproposizioni di figurine televisive come quelle del mago Silvano di Milano (qui praticamente nella parte di uno stronzissimo se stesso). Più divertente e sagace (peccato non si sia sviluppata di più) la parentesi di Silvio Orlando e Fabrizio Bentivoglio, impegnati nella presentazione di un quadro alla televisione: oltre all'avidità, ad essere davvero triste è anche il destino dell'arte, più sincera in un tatuaggio che in un quadro naturalistico abbastanza ridicolo. Ma fra grasse risate, cadute nel demenziale (l'orso che fa spallucce come neanche il gorilla del Crodino) e svolte fantastiche (la maga della Vukotic), si fa fatica a dare al film chance in più di quante se ne potrebbero dare per una battuta fatta durante uno spettacolo di cabaret, per quanto esilarante esso possa essere. Forse non si cerca nient'altro, ma una cosa, triste, è certa: il denaro, in questa Italia in crisi, sembra, volenti o nolenti, fare la felicità, e addirittura porta i protagonisti ad un innamoramento prevedibile e che forse sarebbe stato "più giusto" in assenza di denaro. Ma in fondo, chi se ne frega. Potremo pagare gli strumenti dell'estetista, per divenire (inutilmente) più belli.
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