Regia di Philippe Garrel vedi scheda film
«Io - si dice in J’entends plus la guitare - ti sto tanto vicino da non essere neanche capace di guardarti, di vederti interamente». Ed è questo il territorio di ricerca del cinema di Garrel. La cinepresa al posto del cuore. Osserva, registra, rincorre e si riempe del teatro dell’esistere: è dentro la vita, è troppo vicina, è inadeguata a comprendere il mondo. E dunque non può che stampare su pellicola immagini che sono lasciti struggenti di visioni private (in ogni senso), sindoni sentimentali, tracce di un’umana e fertilissima mediocritas. È un cinema di memoria, di figure che si reincarnano in altre: Garrel rielabora la propria biografia e quella della famiglia, invita il figlio (Louis) a interpretare il padre (Maurice), a riattuare la storia di un amore lasciato, di uno trovato e, infine, di un abbandono. Lui, Philippe, si vede riflesso negli occhi di bimba che ama il padre, la madre e conosce la nuova donna di lui. E questi fantasmi di un tempo passato, questi luoghi interiori, sono messi alla prova di un cinema che è sempre al tempo presente, concentrato sul qui e ora, su set in cui è rigorosamente buona la prima, il primo incontro tra girare e respirare. Questo è La gelosia: frammenti d’esistenza che sembrano in fieri, giustapposti per strappi, racchiusi in fotogrammi b/n carboncino, in 2,35:1 ad abbracciare quel che lo sguardo riesce, in immagini che durano quel che serve a dischiudere i sentimenti presenti, e verificare quelli passati. Non è il miglior Garrel. Ma, per chi scrive, è comunque uno dei migliori cinema possibili.
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