Regia di Francesco Rosi vedi scheda film
Ha senso parlare, ancora una volta, dell’inequivocabile importanza capitale di un film del genere? Ha certamente senso, non soltanto perché l’occasione del restauro impone un’indispensabile confronto, ma perché Salvatore Giuliano è quel che si dice un film seminale. La bussola del cinema civile, dell’inchiesta cinematografica, del film storico all’italiana, di tutto il cinema europeo oserei dire. Un film che è soprattutto l’affermazione più vigorosa di una certa concezione del cinema d’impegno fondato su un rinnovamento narrativo che forse non ha precedenti nella cinematografia nostrana e su uno sguardo autoriale a metà tra la cronaca e la storia. Un cinema che pone la sua visione al futuro, che si fa verbo immutabile se non universale per la sua mancanza di filtri interpretativi incomprensibili al pubblico in senso assoluto.
Perciò Salvatore Giuliano è un classico: cova al suo interno l’idea fondamentale del cinema di Rosi, una sintesi di denuncia civile e politica alla stregua del giornalismo d’inchiesta e quasi da finto documentario e di dramma squisitamente cinematografico, con la tensione costantemente tenua alta e il ritmo che mai perde un colpo. Il merito è soprattutto di Rosi, ma si può ben parlare di un cinema d’equipe, a cominciare dal coraggio produttivo di Franco Cristaldi, artefice del meglio della nostra produzione nazionale per quella particolarissima capacità di coniugare il grande spettacolo di gusto internazionale con le marche essenziali della tipicità italiana, legate fondamentalmente alla vocazione popolare della nostra migliore tradizione narrativa.
E per marche della tipicità s’intende, per esempio, il miracolo di una sceneggiatura che unisce le volontà saggistiche specifiche dei film a tesi di Franco Solinas con l’esperienza romanzesca di Suso Cecchi D’Amico (autrice principalmente delle eccellenti sequenze del processo), in un montaggio non cronologico delle vicende del bandito Giuliano nel quale l’intervento di Rosi è essenzialmente funzionale a dare ampio respiro all’intero film (anche Enzo Provenzale ha collaborato allo script).
E poi la musica incessante e mai invadente di Piero Piccioni, il montaggio coinvolgente ed appassionato di Mario Serandrei e soprattutto la direzione della fotografia del grandissimo Gianni Di Venanzo, immenso nel riuscire a rinunciare agli artifici di un’immagine altrimenti inevitabilmente finta per ragionare in funzione dell’ambiente e del contesto, in un equilibrio inimitabile di puro artigianato e creativa rivoluzione professionale (storiche le lampadine di voltaggio superiore sostituite ai lampioni delle strade di paese).
Da citare almeno la memorabile sequenza dell’obitorio in cui giace il cadavere di Giuliano dignitosamente pianto dall’anziana madre, una pietà laica ed anatomica di lucido dolore a tratti insostenibile per partecipazione emotiva pur nell’ammirevole distacco registico. E anche la lunga sequenza del processo, dominata da un gigantesco Salvo Randone nei panni del giudice (unico professionista assieme a Frank Wolff nel ruolo di Gaspare Pisciotta). A testimoniare ulteriormente la riuscita del film, si pensi al fatto che la ricostruzione della strage di Portella della Ginestra viene riproposta dalle televisioni come se fosse un documento d’epoca. Ora, non so se questo elemento testimoni la riuscita di un film (un film non può sostituirsi alla realtà, benché trattasi di superficialità tele giornalistiche; la può evocare ma non è realtà). Sta di fatto che dicesi capolavoro (cioè "capo d'opera") un film del genere.
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