Regia di Gennaro Nunziante vedi scheda film
Milletrecento copie sul territorio nazionale, venti milioni in una settimana, quasi due milioni di spettatori. Basterebbero i numeri per definire Sole a catinelle, ogni parola potrebbe risultare inutile di fronte alla potenza di cifre così esagerate. L’atteggiamento della critica al cospetto dell’ultimo film con/di Checco Zalone è duplice: da una parte c’è chi lo si considera un prodotto del degrado culturale berlusconiano, dall’altra c’è chi si compiace del personaggio e lo incensa forse a dismisura forse anche per strizzare l’occhio alle masse. La verità sta nel mezzo, certo è che Checco Zalone non è un fenomeno da sottovalutare e va preso con la serietà che gli è dovuta, perché il pubblico che sta popolando le sale è composto soprattutto da persone che non vanno al cinema se non mosse da qualcosa di davvero irresistibile. Il film di Checco è, per l’appunto, irresistibile non tanto per quel che dice o per com’è fatto, ma perché è diventato il film inevitabile, il film di cui più o meno tutti parlano e che si sentono in dovere di andare a vedere. Più che un film è un rito, così come lo poteva essere un Totò negli anni cinquanta, con la colossale differenza che Totò sfornava, nel suo periodo più fertile, due paia di film l’anno, mentre Zalone in quattro anni di attività ne ha fatti soltanto tre.
Son cambiati i tempi, è naturale, i film con/di Totò erano artigianato spesso di bassa lega e tutto il resto, Checco è inferiore a Totò, d’accordo, ma il rito è simile, la reazione del pubblico è la medesima (risate anche di fronte ad un movimento della bocca) e gli esercenti esultano. La grossa differenza che c’è tra il campione d’incassi Zalone e gli ultimi campioni d’incassi italiani (De Sica e Boldi del Natale sul Nilo) è la stessa che c’è tra questi ultimi e un Pieraccioni di dieci anni fa o un Bisio-Siani recente (la cui coppia si è comunque esaurita col dittico dei Benvenuti): rispetto ai prodotti usa-e-getta della Filmauro, questi sono film che trovano una fruizione anche lontano dal cinema, hanno la capacità di creare un piccolo culto attorno, in particolare Zalone, che essendo assai intelligente e scaltro ha saputo costruire il proprio personaggio con imprevedibile maestria anche attraverso canzoni e smorfie. Il suo successo sta tutto nell’equilibrio celato dietro l’esagerazione.
Sole a catinelle è, a mio parere, il più complesso e allo stesso tempo semplice dei suoi tre lavori. C’è un’evidente costruzione dietro, un’assenza di faciloneria al di là del tema tutto sommato banale e delle macchiette in fondo risapute. È il tono conferito alla storia a non convincermi del tutto. Sono convinto del fatto che il film sia essenzialmente rivolto ad un pubblico infantile perché il linguaggio non è scandalosamente triviale (non possiamo più pensare che un decenne non conosca il senso di volgarità come “cazzo” o “frocio”, forse non ne conosce il senso ma sa che queste parole esistono) e la storia è strutturata con limpidezza e con la rassicurante riconciliazione finale. Il problema sussiste nell’amalgama della commedia paterna con quel che resta della commedia all’italiana, cioè con il racconto del mostro-Checco (prodotto dell’Italia berlusconiana e tutto ciò che già sapete) negli ambienti dell’alta industria: se commedia paterna vuole, può e deve essere (non dimentichiamoci mai che il pubblico di Zalone è composto abbondantemente da bambini e ragazzetti), come la mettiamo con un padre, cialtrone finché vogliamo, che, pur riscattandosi involontariamente incastrando i criminali d’alto bordo nel finale, promuove valori imprenditoriale tutt’altro che condivisibili?
So perfettamente che l’attore/autore è più che critico nei confronti delle degenerazioni del personaggio (il divertimento sta nella totale mancanza di criterio, di tatto, di sensibilità del cinico ed infantile Checco Zalone e il buon Luca Medici lo sa) ma non so fino a che punto il suo pubblico sia in grado di capirlo. Il film, ambizioso più per l’attesa creatagli attorno che altro, è un buon prodotto per famiglie non tanto lontano dalla gloriosa tradizione del nostro cinema (malin)comico (il protagonista è un personaggio, non una macchietta) che complessivamente funziona meglio nel filone sul rapporto padre-figlio, pur trovando una certa felicità esecutiva negli sketch con la zia tirchia (penso sia una delle prime volte del Molise al cinema: fulminante la battuta su Isernia) e nell’alta società radical chic, specie al fianco di un inaudito Marco Paolini (quanta ironia, vivaddio) industriale criminale. Citare le scene più divertanti è inutile, tanto l’hanno visto e lo vedranno cani e porci.
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