Regia di John G. Avildsen vedi scheda film
Il sogno americano, quello che promette benessere economico a tutti coloro che perseguono una propria strada con lavoro e sacrificio, si sta rivoltando contro Harry Stoner (Jack Lemmon). Ex combattente durante la Seconda Guerra Mondiale, Stoner è il proprietario di una ditta di abbigliamento femminile, la Capri Casuals, alla quale manca la liquidità economica per produrre una nuova collezione destinata al successo. Per poter assicurare un futuro per almeno un altro anno alla sua azienda, Harry si decide che l’unico modo è quello di far incendiare uno dei suoi stabilimenti per poi riscuoterne l’assicurazione. E così la sua giornata diventa frenetica, tra gli sforzi per convincere il socio e amico Phil (Jack Gilford) contrario alla frode che sta mettendo in piedi, gli incontri con colui che dovrà appiccare l’incendio, i tentativi di risolvere i dissidi tra i dipendenti, la necessità di presenziare al defilé di presentazione della nuova linea di abbigliamento, la ricerca di prostitute da procurare ad un ricco e pervertito cliente, i ricordi di guerra che lo tormentano, l’incontro di una notte con una giovane autostoppista.
Grazie alla magnifica interpretazione di un Jack Lemmon giustamente premiato con l’Oscar e che si carica letteralmente sulle spalle il film, Salvate la tigre diventa il ritratto di un uomo contraddittorio e dalle mille sfaccettature. Un uomo che in gioventù aveva creduto nell’America (“Una volta mi veniva la pelle d’oca ogni volta che guardavo quella bandiera! […] Adesso con quella bandiera ci fanno i sospensori!”) e che aveva combattuto per essa. Oggi, invece, Harry ha perso del tutto i suoi ideali, è uno sconfitto, un cinico imprenditore disposto a tutto. Oggi Harry procura prostitute ai suoi facoltosi clienti, trucca i libri contabili e deve scegliere tra un’azione criminosa e la sopravvivenza della sua azienda. E tutto questo per restare in vita almeno “un’altra stagione”. “Tutto qui? Un’altra stagione. Solo sopravvivere: niente più sogni, niente più speranze?” gli chiede l’anziano sarto ebreo. “Speranze? Ce l’hanno solo le vecchiette che vanno a Las Vegas con un sacchetto pieno di monetine” ribatte cinicamente Harry. Offuscata dalla rievocazione della sua giovinezza, la mente di Harry si sofferma a ripetere a memoria le formazioni delle partite di baseball, soffre ed ansima nei ricordi di guerra, di quando sbarcò ad Anzio in una spiaggia “inzuppata di sangue” che adesso è diventata una stazione balneare piena di bikini, con “tante belle chiappette stese sulla sabbia che aveva succhiato tutto quel sangue”. L’incontro con la giovane Myra, la notte passata insieme, è l’occasione per fargli esprimere per l’unica volta ciò che desidera davvero: “Voglio essere innamorato di qualcosa: qualsiasi cosa, anche solo di un’idea, di un cane o di un gatto. Qualunque cosa!” Ma è soltanto l’illusione salvifica di una notte. Il mattino seguente si deve ritornare “allo zoo”, ai progetti ed alle nevrosi quotidiane, al definitivo gesto che potrebbe salvarlo o seppellirlo definitivamente. Perché Harry è come la tigre del titolo, preso in prestito da una petizione che egli stesso firma per strada per salvare le tigri dall’estinzione. Perché “le tigri e i leoni tornano sempre nei luoghi belli del loro passato”. Ed è proprio questo che li frega.
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