Regia di Olivier Assayas vedi scheda film
“Sils Maria” è un film sconclusionato. Non poteva essere altrimenti. L’ultima opera di Assayas va ad inserirsi in un filone che sta caratterizzando questa prima parte di anni 10, a cui appartengono i vari “Maps of the Stars”, “The Canyons”, “Holy Motors”, “Road to Nowhere”, “Birdman” ed altri. Una nuova incarnazione del vecchio meta-cinema, aggiornata all’era di internet e delle nuove tecnologie di comunicazione e di riproduzione delle immagini (con tutte le conseguenze che queste innovazioni potenzialmente comportano sull’arte filmica, ossia la presunta “fine delle storie” e la conclamata caduta di barriere fra i concetti di mainstream e underground).
E’ evidente che in un simile calderone di spunti, il perdersi è quasi inevitabile (e forse, in qualche caso, voluto dagli autori). Vedendo questi film che indubbiamente spostano in avanti di una tacca, probabilmente la più estrema possibile, la frontiera del post-modernismo, fino a superare il cinema stesso e le sue residue regole etiche ed estetiche, si ha quasi l’impressione di non assistere più ad un film, nemmeno ad un film “sperimentale” o ad un film-saggio: la sensazione che prevale durante la visione è più o meno quella che si prova “surfando” sul web, passando da una pagina all’altra di wikipedia (questo accade anche in “Nymphomaniac”di Trier, altro film che ben rappresenta lo zeitgeist degli anni 10), assistendo ad una discussione su un forum tematico, alternando convulsamente video, immagini, blog, chat, infine invadendo le vite altrui tramite i social network.
Poco importa se questa sensazione prende la forma di una metafora narratologica (come in Schrader e Carax) o figurativa (nel film di Hellman), anziché concretizzarsi (maldestramente) in un ritratto caustico del declino hollywoodiano nel film di Cronenberg oppure prendere di petto la faccenda, esaltandone le possibilità creative come nel film Oscar di Inarritu. Ogni autore sceglie la propria via per affrontare questo argomento così vitale per la sopravvivenza dell’arte cinematografica stessa, ma la prolissità, lo sfilacciamento, la perdita di coordinate paiono un aspetto ineluttabile di questa recente corrente espressiva. Che tutto ciò sia un effetto collaterale o invece una precisa strategia dell’autore resta una questione insoluta: ed è ciò che impedisce a questi film di essere inquadrati univocamente, lasciando lo spettatore nel dubbio che le falle dello script e lo sbando della regia siano voluti o meno.
“Sils Maria” non fa eccezione: pur avendo una struttura scandita in tre atti, ai quali corrispondono ambienti e situazioni ben definiti, ciascuno di questi tre blocchi viene come inondato da un flusso di parole, informazioni, immagini, video, memorie, telefonate, bloc notes, schermate di smart-phone (azzeccata è in questo senso la metafora del Serpente del Maloja, un nebbione che tutto avvolge e confonde). Ci si perde, inevitabilmente, in una non-storia che sovrappone riflessioni sulle varie dialettiche che si instaurano fra teatro e vita, passato e presente, gioventù e maturità, distanza e vicinanza, natura e tecnologia, cinema blockbuster e d’essai. Si smarrisce il senso complessivo di un’opera che pare ridefinire il proprio centro ad ogni nuova sequenza.
Forse quello che conta non è la conclusione e nemmeno il percorso, ma lo scambio di informazioni, il continuo, incessante, inconcludente confronto verbale che costituisce la ragione d’essere di ogni istante di questa opera. E’ un film coniugato all’eterno presente, proprio come lo è il web che fagocita qualsiasi tipo di informazione e le mette tutte sullo stesso piano. E’ un film stratificato, dove però ogni livello pare schiacciarsi sugli altri, indistintamente. Non a caso, sul piano figurativo, ricorre spesso (ed è una cosa non così frequente per un “regista della parola” come Assayas) il motivo della trasparenza, della sovraimpressione, della compresenza di diversi livelli visivi (il set teatrale, il viaggio notturno di Valentine, il riflesso dei finestrini delle automobili).
Certi richiami all’attualità (la ninfetta che parodizza gli eccessi di una Lindsay Lohan), certi personaggi marginali (il giovane attore Chris, il volpone Henryk) e la forza centrifuga del copione (dove lutto, invecchiamento, nuove tecnologie, attrazione sessuale si passano il testimone, come drink scolati uno dopo l’altro) sono tutti elementi che paiono stonare col presunto nocciolo della vicenda (il rapporto ambiguo fra l’attrice Maria e la sua assistente Valentine), ma la loro funzione è proprio quella di inquinare costantemente la purezza emotiva di questo confronto intergenerazionale, impedendo allo spettatore di sviluppare una certa empatia per una delle due donne. Naturalmente, “Sils Maria” è anche un film sul desiderio, ma si tratta della ricerca di un piacere teorico, cerebrale, virtuale, che non esplode mai nella sua fisicità (anche qui si denota una dinamica tipica del web).
C’è tanta carne al fuoco in questo mix di Bergman, Rivette e Rohmer, così pieno di ellissi e di misteri (che ne è di Valentine?), di identità precarie, di interferenze semantiche: la cosa importante è che da questo caos emerga forte il sentimento del nostro tempo e che l’umanesimo residuo permanga, fintanto che ci saranno in giro attrici che non deludono mai (come la Binoche) ed altre che sorprendono (come la Stewart), oltre a gente che le sa dirigere.
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