Regia di Olivier Assayas vedi scheda film
Ulteriore conferma dell’eclettico talento del regista, è il racconto del percorso di crescita di una donna che rifiuta la maturità per rimanere aggrappata a quelli che potremmo definire come gli irrinunciabili privilegi di una giovinezza che inesorabilmente comincia a declinare, ambientato negli straordinari scenari delle montagne dell’Engadina.
“Non mi piace Hélèna; io sono Sigrid e voglio restare “Sigrid”
Sils Maria è un vertiginoso, raffinato gioco di rifrazioni e di rimandi fra vita reale e finzione, essenza interiore e immagine esteriore, che pone al centro la figura di Maria Enders senza dimenticare però quelle delle altre donne che le girano intorno (Valentine, Jo-Ann, Rose e persino la più defilata presenza di Alexandra) e degli uomini che direttamente o indirettamente hanno avuto qualche ruolo nella sua esistenza. Nel film insomma non c’è nessun personaggio davvero marginale, tutti sono rilevanti e fondamentali (nel senso che ciascuno rappresenta – anche con la propria “assenza” - una “particolare cartina di tornasole” atta a far emergere una parte del sommerso gelosamente tenuto nascosto anche a se stessi) nel quadro generale di un racconto tanto stratificato come questo in cui più che i fatti, sono importanti proprio le sfumature, il non detto, ciò che non viene mostrato, o per meglio dire, quello che la macchina da presa è incapace di riprendere ma riesce benissimo a farci percepire, tanto che uno dei momenti più importanti della storia (e della sua momentanea “sospensione” che volutamente si crea anche nel percorso narrativo) è quello di una “scomparsa” dolorosa ed enigmatica (tutt’altro che inspiegabile e inattesa per lo spettatore attento però, persino anticipata dalla bellissima, allucinata sequenza del viaggio in macchina in solitaria di Valentine) resa possibile da una momentanea distrazione dell’interesse visivo impegnato altrove che è alla fine l’inevitabile conseguenza del non aver saputo soffermare più a lungo lo sguardo sulle persone anziché sul paesaggio circostante o sul proprio personale egoismo.
Diviso in due parti e un epilogo, è un film molto difficile non tanto da raccontare, quanto invece da commentare per la complessità non solo del linguaggio, ma anche dei diversi piani di lettura che offre allo spettatore (e dove alla fine Maria potrebbe essere persino “una e trina”, o forse - come ammesso dallo stesso autore - addirittura un avatar di se stessa che si rifrange in forma speculare sia in Valentine che in Jo-Ann). In sostanza dunque, una pellicola che parla certamente di persone, ma anche di cinema, di messa in scena, di recitazione, tutte cose insomma che un uomo di spettacolo come Olivier Assayas conosce molto bene essendo uno dei maggiori registi europei della sua generazione, che è stato anche - ed è bene ricordarlo – un critico importante, oltre che un grande esperto del cinema orientale.
Possiamo dunque dire in questo senso che Sils Maria rappresenta un’ulteriore conferma del talento eclettico di un autore che sa adeguare il suo stile alle esigenze delle singole storie che sceglie di raccontare rimanendo comunque sempre fedele a se stesso, e che questa volta con un brusco passaggio temporale, ci porta dalle atmosfere post sessantottine di Apres mai (Qualcosa nell’aria) ai paesaggi aperti di montagna e dentro alla scena artistica contemporanea, mantenendo comunque invariato il suo sguardo empatico, ma rigoroso e secco che, come ha ampiamente dimostrato con la sua precedente opera, anche quando parla del passato, non si piange addosso, non si compiace, ma usa i propri ricordi e la Storia per interrogarsi e confrontarsi col presente (Emanuela Martini). Ed è esattamente quello che alla fine fa fare anche a Maria (pur se in maniera molto più problematica e “incerta”), la protagonista di questo toccante “ritratto di un’attrice” troppo a lungo rimasta prigioniera di uno spazio atemporale inamovibile che vorrebbe prescindere persino dall’anagrafe.
Vero e proprio film-saggio che si interroga sul tempo (e il suo trascorrere) è dunque il racconto del percorso di crescita di una donna che rifiuta la maturità per rimanere aggrappata a quelli che potremmo definire come gli “irrinunciabili” privilegi di una giovinezza che inesorabilmente comincia a declinare, ambientato negli straordinari scenari delle montagne dell’Engadina, vicino al villaggio di Sils Maria dove Nietzsche concepì ed elaborò proprio quel concetto basilare della sua filosofia definito dell’”eterno ritorno” (in un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte).
Non è solo questo però, poiché si pone con altrettanta forza, anche come una singolare, profonda riflessione sul cinema, vero e proprio “illusionista dello sguardo” (così è stato definito da qualcuno), e sulle suggestioni indotte offerte dalla cinepresa che per quanto muliebre e mutante possa essere, offre sempre la propria (parziale) “versione” delle cose, nel senso che – estrapolandolo dall’insieme - sceglie e seleziona solo ciò che intende davvero far vedere.
Il titolo si riferisce dunque proprio all’omonima località dell’Engadina, nota per un famoso fenomeno atmosferico (molto importante nell’economia del film), un serpente di nubi che in particolari, rarissime condizioni metereologiche, si forma e si insinua fra i monti che fu filmato per la prima volta nel 1924 da Arnold Frank, pioniere del cinema di montagna: immagini alle quali Assayas rende omaggio non solo mostrandole nel film, ma commentandole così nel corso di un’intervista: “è un momento magico della storia del cinema in cui c’è questo sguardo sulla natura che mi fa pensare alla pittura cinese, con queste nubi che scivolano lentamente”.
E’ lì che si rifugiano la celebre attrice Maria Enders (una magnetica Juliette Binoche in una delle prove più coraggiose e sentite dell’intera sua carriera) e la sua assistente tuttofare Valentine, dopo una prima parte che ci mostra le due donne in treno, dirette a Zurigo dove Maria dovrà ritirare un prestigioso premio letterario assegnato allo scrittore Wilhelm Melchior che quando lei aveva solo diciott’anni, le regalò il successo, prima in teatro, e poi al cinema, nella parte della giovane e ambiziosa Sigrid che seduce e poi costringe al suicidio Hélèna, quarantenne (e fragile) dirigente d’azienda, molto di più che sua semplice datrice di lavoro. Un ruolo che la donna sente ancora sottopelle come stimolo a perseverare “immutabile” e senza cedimenti, in una carriera che sembra invece già indicare i preoccupanti segni dell’inizio di una fase discendente sia sul versante artistico che su quello privato (sta infatti definendo le pratiche di divorzio dal marito).
Nel corso del viaggio però e poco prima di giungere a destinazione, arriva la tragica notizia della morte improvvisa del commediografo (suicidio?) che trasforma la celebrazione in commemorazione. Sconvolta dalla notizia e dubbiosa sulla necessità di onorare l’impegno che si era presa, alla fine Maria decide di restare e nel corso della serata, riceve così la proposta di un emergente regista teatrale che ha fiutato il colpo, di tornare sulle scene a recitare il testo che le ha dato la celebrità, ma nel ruolo della succube Hélène, la vittima, più consono alla sua età attuale. Quello di Sigrid sarà invece affidato a Jo-Ann, giovane star hollywoodiana spregiudicata protagonista di avventurose pellicole di supereroi in 3D, piccola divetta in pectore di un futuristico action-movie e personaggio “mediatico” di spicco tutto eccessi e trasgressioni sbattuti su Youtube e social network che potremmo definire alla Lindsay Lohan.
L’attrice - che la trova così lontana e “estranea” a quelle montagne dell’Engadina (e anche dalla “sua” Sigrid) - non la conosce ancora personalmente, ma è già assalita e avvolta dalla fama di rampante ragazza avvezza agli scandali, pronta a cavalcare la popolarità del web che la circonda, il che acuisce la sua evidente perplessità sul perché di quella scelta (resa ancor più palese senza il bisogno di altre mediazioni, dalla formidabile invenzione registica di farci vedere Jo-Ann ben prima del suo arrivo, in una breve ma significativa sequenza di un cinefumetto totalmente inventato da Assayas, che diventa il gustoso paradigma dello sprezzo di Maria verso di lei e l’oggetto della più lucida analisi comportamentale fornita invece da Valentine.
Nonostante la perplessità iniziale (“Non mi piace Hélèna; io sono Sigrid e voglio restare “Sigrid”) e in una realtà in cui le altre proposte che ha a disposizione sono una parte da madre superiora di un convento in un horror spagnolo e un’intervista per un settimanale italiano su come si può sedurre un uomo dopo i quarant’anni, convinta anche dall’insistenza ferma e gentile di Valentine, l’intelligente e preparata ragazza che la segue come un’ombra proteggendola con una cura amorevole che va ben oltre il dovere professionale (e con la quale intrattiene un rapporto che potremmo definire “ambiguo”), Maria, seppure controvoglia, non può che scegliere di tornare a recitare nella vecchia commedia.
Riluttante, comincia così a prendere un contatto più diretto con la nuova figura di donna che deve interpretare, e per farlo, si fa porgere le battute (quelle di Sigrid) proprio da Valentine, cosa che finirà per creare un vero e proprio corto circuito. La resistenza è duplice: difficile “sentire” i panni di quella che era stata “l’altra donna”, sia per affinità di carattere che per non aver ancora il coraggio di ammettere il passaggio del tempo.
Lo chalet tra le montagne svizzere che le accoglie per tutta la fase preparatoria del lavoro, è quello in cui lo schivo e problematico scrittore recentemente scomparso, aveva a suo tempo concepito il dramma, e dove stava lavorando proprio per dargli un seguito “vent’anni dopo”.
Via via che approfondisce il testo da questo nuovo punto di vista, l’attrice è turbata e assediata come da un senso di minaccia che accresce notevolmente la tensione. Le evidenti difficoltà a calarsi nei panni di Hélèna e le prevaricazioni del testo, si riverberano così nel difficile rapporto con la sua assistente che diventa sempre più perturbante man mano che si va avanti con le prove del copione in attesa dell’arrivo dell’altra “nuova Sigrid”.
Sulla storia in senso stretto, credo che ci sia molto poco da aggiungere, se non che la scelta di girare tra le montagne svizzere, in quel paesaggio montano romantico e inebriante perfetto per definire al meglio il clima di disagio psicologico, di eccitazione emotiva tra rifiuto del cambiamento e nostalgia del passato che caratterizza il racconto, è una delle intuizioni più folgoranti della pellicola, quella che serve davvero a creare l’ “isolamento” necessario a far emergere il sommerso fra Maria e la sua assistente: “da quando le donne si trasferiscono nello chalet – ed è ancora il regista che lo dice - il paesaggio che ha ispirato pittori e filosofi, diventa un personaggio del film. E’ un mondo immutabile in cui si inseriscono due esseri umani che si interrogano sulla realtà del tempo, un luogo abitato da presenze e da fantasmi, che risuona di questioni filosofiche, e dove anche il “serpente” è quasi un organismo vivente, e come tale, altrettanto condizionante”.
Così, quando Maria e Valentine ripetono le battute della commedia, in realtà non “mimano” la finzione, ma si parlano e dialogano invece fra loro dal profondo, tirando fuori tutto ciò che sempre hanno nascosto e taciuto.
Come si può ben comprendere da quanto sopra esposto, il resto (che è poi la parte più succosa e interessante) di questa pellicola costruita a scatole cinesi, che può persino cambiare prospettiva a seconda del punto di vista di chi osserva, sono le implicazioni, i conflitti, i coinvolgimenti emotivi e i segreti che trapelano da tutte queste donne. Sono le parole che collegano i loro atti che emergono da un racconto disseminato di “superfici riflettenti” e dove persino il ragionamento sulla pervasività 2.0 della rete e dei social media è di natura riflettente (da un lato squallida vetrina del narcisismo crudele dell’utenza; dall’altro imprescindibile fonte di documentazione immediata grazie alla sua immensa banca dati resa disponibile semplicemente cliccando su di un tasto).
Un coinvolgente “gioco di specchi” insomma, attraverso il quale Assayas mette a confronto (con precisi quanto “velati” rimandi al Mankiewicz di Eva contro Eva che nella messa in scena sul palcoscenico che chiude il film, si fanno più espliciti, quasi “citazionisti”) tante “coppie” di donne contrapposte: Hélèna e Sigrid (quelle di una volta e quelle del presente), Maria e Jo-Ann, e soprattutto Maria e Valentine (e l’interazione costante che si crea fra le due donne che ricalca analoghe dinamiche spesso a corrente alternata), ma anche, sia pure un po’ più di straforo e in maniera molto più sfumata, Jo-Anne e Alexandra (la mancata suicida, moglie del suo amante, che conosciamo solo in fotografia) in una specie di nuovo Effetto notte o de La donna del tenente francese(citati solo per rendere un poco più chiara l’idea) aggiornati ai tempi di Internet, ma dove la realtà si mescola ancora e sempre con la finzione della scena diventando spesso interscambiabile, dentro a un gioco delle parti capace di riverberare con ironia e leggerezza l’ambiente del cinema e del teatro e di mischiarlo – con profonda empatia – con il consuntivo esistenziale con cui Maria decide alla fine di fare i conti, in un contesto dove, al di là delle tre figure principali in mancanza delle quali il film non esisterebbe proprio, anche il romantico, inebriante paesaggio circostante (e lo abbiamo già detto) diventa un altro prepotente protagonista della storia, insieme all’impalpabile presenza (o per meglio dire ancora alla sua “bruciante assenza”) di Wilhelm Melchior, poeta, commediografo, cineasta autore della piéce Maloja Snake (ecco un altro “infinito ritorno”) che ha reso famosa Maria e che adesso dovrà reinterpretare, e ai vecchi film del già citato Arnold Frank e al fenomeno meteorologico del “serpente”di nuvole (che poi nel film arriva per davvero), una suggestione ottica che sospende qualsiasi concetto di tempo e di spazio.
Mille sfaccettature di una storia dentro a una struttura meta-cinematografica dunque che mette in comparazione (o per meglio dire in rotta di collisione) i mélo di ieri con i blockbuster di oggi e sembra voler giocare persino con il vissuto personale e artistico delle sue tre interpreti oltre che di se stesso. Quello di Juliette Binoche in primis (ribadisco: superba interprete della figura di Maria) che come Assayas fa parte della stessa, straordinaria e irripetibile “felice” stagione del cinema francese che si deve confrontare con un oggi molto meno confortante, ma anche (e perché no?) quella dell’altrettanto brava – e per me una sorprendente rivelazione - Kristen Stewart, l’eroina di Twilight: “Quando ho incontrato per la prima volta la Stewart e nulla ancora era stato deciso, ho avuto la sensazione che ci fosse qualcosa in lei che non era mai stato catturato sullo schermo. Ed è vero che quando ho scritto il suo personaggio, che ha la sua stessa età e altre similitudini, ero sicuro che se avesse accettato avrebbe apportato qualcosa di grande al film, cosa che è accaduta ben oltre le mie più rosee aspettative – sono parole del regista che condivido in pieno: tra lei e Juliette, nei loro dialoghi, c’era una sorta di competizione che ha dato vita a un duetto insolito, toccante e veritiero”.
Il film dunque appartiene di diritto a questo formidabile duetto di interpreti, anche se non va dimenticato nemmeno la matura prova di Chloe Grace Moretz, perfetta nel farsi a sua volta riflesso delle altrui aspettative e nel rappresentare al meglio la rapidità camaleontica con cui le nuove generazioni riescono a cavalcare l’onda.
Le ultime parole però sono per la regia e il talento di Assayas, che con una narrazione nitida come un cristallo, aerea e formalmente impeccabile, ci ha fatto dono di quest’opera complessa, di scrittura, di “testa” (come si suol dire), fluida, sensibile e piena di sottotracce che trasudano cinefilia e commistione di linguaggi artistici trattati con competenza e affetto Lui ha davvero saputo trarre il meglio dalle sue tre mirabili interpreti in un film che ha al suo attivo oltre alla bellissima fotografia, anche l’enfasi assicurata da una colonna sonora davvero indovinata che fa principalmente leva sulla Sinfonia n° 2 in Re maggiore di Haendel, ma con l’interazione di qualche brano rock ben assestato (perfetta commistione di “sacro” e “profano”). Restano ancora da menzionare un paio di guizzi di regia notevolissimi, come l’ammirevole (per intensità e pathos) lunga sequenza iniziale sul treno che ci rivela fatti e psicologie attraverso una serie di telefonate e confronti, o l’entrata in scena conclusiva al momento della prima, in cui la complessità della scenografia con i suoi corridoi e cunicoli consequenziali, è posta al servizio della ritrovata consapevolezza della nostra protagonista finalmente in grado di accettarsi in un finale che – come il “serpente di Maloja -, s’incanala perfettamente nella finzione teatrale che riflette la vita, l’arte e la sua rappresentazione.
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