Regia di Olivier Assayas vedi scheda film
Un film complesso e traslucido. Sils Maria s’inoltra nel mistero della presenza dell’attore innervando un discorso sulla creazione del cinema nel mito del film di montagna di Arnold Fanck. Nel corpo di Juliette Binoche, Assayas osserva come in un specchio l’epifania di una mutazione; si pensa ovviamente a Sans titre (Man Yuk: A Portrait of Maggie Cheung). Nell’opporre due corpi femminili (il regista avrebbe voluto Mia Wasikowska al posto di Kristen Stewart) Assayas, pur omaggiando il maestro Bergman, sembra addirittura attingere al magistero di Mankiewicz. La riflessione sulla fragilità dell’immagine si fonda sull’evidenza dell’impossibilità del corpo di restare fedele alla sua riproduzione. Ed è in questo lutto, che fonda il piacere stesso del cinema, la nostalgia del corpo per la sua immagine fissata per sempre nel tempo, che Assayas giunge a lambire Nietzsche e l’eterno ritorno. Le nubi che formano il serpente di Maloggia (immortalate da Fanck nel 1924 e che la seconda unità di Assayas ha ricreato con precisione calligrafica) sono il segno di una presenza concreta che si situa alle soglie dell’invisibile. Proprio come le proiezioni del corpo dell’attore di cui scriveva Nietzsche in La nascita della tragedia. Film di segni impalpabili, Sils Maria è il cinema condensato come in un cristallo dalle molteplici facce. A osservarlo, sembra di vedere tutto. Ma è solo un inganno. Il più necessario.
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