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Cannibal

Regia di Manuel Martín Cuenca vedi scheda film

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La recensione su Cannibal

di OGM
8 stelle

Lui dirà che è stato solo per amore. Sembra un’atroce assurdità, ma alla fine del film forse arriveremo perfino a crederci. Carlos è un uomo che ammazza le donne per mangiarle. È il suo modo di possederle, l’unico di cui sia capace. Nessuno sospetta nulla, vista la sua figura distinta e tranquilla, e considerato il suo stile di vita regolare e pacifico. È titolare di una sartoria assai rinomata, ama il suo lavoro e vi si dedica con tutta l’anima. Con lo stesso misurato scrupolo professionale affronta anche il lato in ombra della sua esistenza: è un assassino che seleziona accuratamente le sue vittime, studia il momento giusto per colpire, infine seziona e prepara le loro carni con scientificità. Ma questo approccio distaccato non ha la durezza del cinismo del maniaco, del vendicatore che cerca una segreta e crudele rivalsa rispetto alla propria infelicità. Il tono del racconto mette al bando gli stridori della follia e del gusto horror, per sintonizzarsi sul ritmo dimesso della solitudine che ama il silenzio e si adagia su un’anonima routine. La patologia omicida occupa una nicchia nascosta dell’intimità, di cui rappresenta, sia pur in una veste anomala, il calore e la passione, uniti al senso del piacere proibito. Questo, per Carlos, passa attraverso l’osservazione del corpo e la consumazione del cibo, e si inserisce armonicamente nella sua normalità di single che gode di piena libertà di movimento ed è padrone assoluto del suo tempo. Il cannibale, in questo caso, non è l’occasionale preda di un raptus, ma soltanto lo schiavo di un’abitudine, coltivata senza furia, come una qualsiasi pratica quotidiana. L’immagine dell’aberrazione perde i colori accesi della mostruosità se è guardata dall’interno del contesto individuale di cui è parte integrante. Ne costituisce un risvolto certo peculiare, però vissuto senza ansie né eccessi. Prova ne è la naturalezza con cui esso riesce ad amalgamarsi con il sentimento sincero, quello che nasce dalla coscienza e mette radici nel cuore; è l’affetto che legherà Carlos a Nina, la sorella dell’ultima ragazza che ha ucciso. Nei suoi confronti, l’uomo si mostrerà spontaneamente altruista, premuroso, ed infine romantico: un comportamento che inizialmente si direbbe indotto dal rimorso, ma che in seguito diventa espressione di un nuovo desiderio di esserci  per qualcuno, attraverso il bene di sapersi donare. Non si tratta di una guarigione o di un ravvedimento, perché a cambiare non è lui, bensì le condizioni al contorno: Nina non è infatti, come quelle che l’hanno preceduta, l’estranea che capita casualmente a portata di mano. È invece una donna di cui conosce la storia, e che è venuta a cercarlo per un motivo ben preciso, che, tra l’altro,  intimamente li unisce. Questa è la situazione imprevista in grado di  innescare la tensione, in questo thriller nel quale la vera incognita è il modo in cui la vicenda, restando fedele alla sua riflessiva pacatezza, riuscirà ad eludere la prevedibilità. Noi ce lo chiediamo, e il regista spagnolo Manuel Martín Cuenca ci dispensa la sua risposta con la lentezza che caratterizza i percorsi più profondi dell’animo umano, quelli che sono i più intensi e difficili, ma spesso anche i più dolci. 

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