Regia di Lorenzo Bianchini vedi scheda film
Molti wilderness drama sono ovviamente wilderness horror. La potenza evocativa della natura selvaggia e la simbologia animale, vegetale e minerale non possono che dare un valore aggiunto, uno slancio differente all’alterità insita e connaturata di una narrazione orrorifica. L’opera di Bianchini è di fatto un manifesto stilistico e poetico che reinventa, o meglio riconsolida il genere horror partendo dalle origini, partendo dal suo concetto basico. Il terrore è proteiforme, ma allo stesso tempo è rappresentabile in dettagli e figure precise, topiche, dell’immaginario fantastico. Ecco che il primitivismo di cui è saturo il film, insieme all’iconografia rustica, la presenza animale, l’economia di personaggi, l’unità di luogo e azione, i topoi classici del filone horror di riferimento – case abbandonate e infestate, bambini fantasmi, traumi o tragedie del passato che ritornano – e la regia consapevole del fattore angoscioso e perturbante dei segni evocatori scelti come esistenti della storia, fanno di Oltre il guado uno dei migliori film horror del nuovo secolo, sospeso tra folklore e fiaba nera, tra ellissi narrative, inserti febbrili e un realismo magico difficile da rintracciare nella cinematografia italiana.
Giustamente antididascalico, Oltre il guado si apprezza per l’idea stessa di regia che ha voluto adottare Bianchini lasciando al minimalismo narrativo e al potere evocativo dei luoghi e degli oggetti desueti – per dirla come Orlando – la base poetica di partenza della sua storia: un orrore atavico che si riflette e rivive nelle pulsioni impercettibili della terra, della fauna e della vegetazione del locus horridus prescelto – un vecchio villaggio abbandonato tra i fitti boschi e gli impervi pendii delle montagne friulane di confine con la Slovenia, terre care al regista. Il tema della presenza inquietante è fondante nell’economia della storia del film. Pur non esplicitando la mostruosità fin da subito come in molti film main stream, Bianchini riesce a sospendere l’atmosfera tra fiabesco e realismo, con punte oniriche per nulla gratuite, lasciando ai puri segni il compito di traghettare il personaggio protagonista, e lo spettatore, dal reale al fantastico, in questo caso fantastico nero. Attraverso l’allucinazione, sia psichica del protagonista, sia linguistica del regista, lo spettatore intuisce di trovarsi all’interno di un racconto del terrore, un racconto di tipo letterario, dove i canoni tradizionali del perturbante non erano ancora stati inquinati dalla pornografia della violenza e del torture porn – anche se va detto che tale estetica estrema, se usata con autorialità e genio poetico, sa fare la differenza e apre a riflessioni sul corpo e sulla carne, centrali in epoca postmoderna o ipermoderna.
Il wilderness horror con cui Bianchini ha deciso di sterzare autorevolmente la propria produzione indipendente, iniziata con l’acclamato Radice quadrata di tre (Lidrîs cuadrade di trê, 2001), vince una grandissima scommessa, che è anche una tesi tra le meno sradicabili nell’ambiente accademico, ovvero che un racconto horror, o fantastico nero, o del terrore o di paura, come uno preferisce, può basarsi su pochi elementi narrativi, semplici, lineari, concentrati di simbolismi ed evocazioni, originati da topoi universali, ancestrali e primordiali, rappresentati da iconografie care al genere stesso. La differenza, ovviamente, la fa l’estro e la creatività dell’autore.
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