Regia di Billy Wilder vedi scheda film
La figlia dello chauffeur osserva la festa che si sta tenendo nella casa dei padroni e coltiva il suo amore impossibile nei confronti del fatuo secondogenito. E potrebbe essere l’incipit di una parabola sulla lotta di classe se non fosse l’antefatto di un triangolo sentimentale sull’esercizio dell’amore anche attraverso l’intervento dell’odio: in escalation forse circolare, l’umile Sabrina ama il mondano David (sguardo dal basso verso l’alto), il bel David ama la bella Sabrina post-Parigi (rapporto paritario), il cupo Linus odia la nuova Sabrina (diffidenza dall’alto verso il basso che cerca di essere altro), l’odiata Sabrina e il solitario Linus s’innamorano. Entrambi scoprono di avere un’idea deviata l’uno dell’altro derivata dalle proprie maschere: la splendida Sabrina francesizzata nell’aspetto resta comunque la discreta e modesta figlia dell’assennato e ligio chauffeur e l’opportunista Linus che vuole allontanarla da David (su cui vuole mantenere una specie di controllo: ma è la madre a controllare i figli) è in realtà la figura tipicamente wilderiana del deluso dall’amore che si fa forte del disprezzo nei confronti del mondo. Tra le pieghe di una confezione sfacciatamente hollywoodiana che intensifica i codici della commedia romantica (gli stereotipi dei chiari di luna, l’estetica significante dei divi, le musiche languide) fino ad annullarli, Sabrina è un film iconoclasta che dispensa tristezza lungo il suo corso formalmente alla ricerca dell’equilibrio e dell’ordine, lo stesso happy ending è di una malinconia estrema: l’amore che giustamente trionfa tra Sabrina e Linus non è pacifico, è pura malinconia che s’infrange sullo scoglio dell’amore impedito a Sabrina e David.
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