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Papusza

Regia di Joanna Kos, Krzysztof Krauze vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Papusza

di yume
8 stelle

Storia triste di una bambola spezzata

locandina

Papusza (2013): locandina

“…Non sono una poetessa, sono solo una zingara

    del bosco, che vive di natura … Sono felice quando                            

    sento cantare le ruote, quando sento la pioggia

    che batte sul carro…Questa è la mia musica e a volte 

   le parole stesse lo diventano…”

                                                                                              (Papusza)

https://www.youtube.com/watch?v=C_AeKGNAEWg

Una poetessa rom (o romanì) nata e cresciuta in Polonia.

Si chiamava Bronis?awa Wajs (1908-1987), ma per tutti era Papusza, che in lingua rom significa bambola.

La madre l’aveva partorita sola, sulla terra ghiacciata, gridando “mamma”. Poco prima si era fermata in paese a guardare una vetrina per ricchi gaje, i non rom, e una bambola vestita da regina fra dolci e confetti l’aveva incantata.

Non volevano chiamarla Papusza gli altri della sua kumpania, ma lei no, testarda, volle darle quel nome che le portò tanta sfortuna e tanta ne portò al suo popolo.

L’aveva detto la vecchia maga venuta a pronunciare le formule magiche, e le vecchie maghe bisogna ascoltarle.

Soprattutto se, crescendo, maturano strane voglie. Strane per una donna, peggio se rom.

Papusza voleva imparare a leggere e scrivere.

1908 o 1910, dalle parti di Lublino, la kumpania fa una sosta e Papusza viene al mondo.

A 15 anni è venduta ad un uomo anziano, suonatore di arpa. Resterà con lui, senza figli, fino alla morte del vecchio. Quando l’avevano costretta al matrimonio aveva pregato il suo Dio di sigillarle l’utero, e almeno quella grazia le era stata accordata.

 

Jowita Miondlikowska

Papusza (2013): Jowita Miondlikowska

Papusza era bella, nella sua testa c’era la poesia e sgorgava come un ruscello limpido, acqua pulita e semplice, ma aveva bisogno di scriverla, di carta e penna, conoscere la forma delle lettere, il loro suono:

“Il mio patrigno era un ubriacone e un giocatore d’azzardo, mentre mia madre non sapeva cosa significasse leggere o scrivere nè cosa una bambina dovesse imparare. E allora come ho imparato? Chiedendo ai bambini che andavano a scuola di mostrarmi come scrivere le lettere. Rubavo sempre qualcosa e gliela portavo così poi loro mi insegnavano in cambio. Ed è così che ho imparato le lettere a, b, c, d e così via.”

Poetessa nomade di un popolo senza fissa dimora, senza “memoria”, lingua e segreti non dovevono essere svelati, pena l’ostracismo. Dunque Papusza ebbe il destino che meritava, di questo fu accusata.

Oggi qualcuno la difende, ma troppo tardi. Nel recensire il suo libro il premio Nobel 1996 per la letteratura Wis?awa Szymborska scrive:

“Dove sono in queste canzoni gli orpelli folkloristici, le predizioni, le maledizioni, i riti magici, le misteriose notti di luna? Esotismo? Sì, certo, esotismo, ma lo troviamo solo là dove la poetessa parla del bosco, del sole, degli uccelli. Questa intimità con il bosco che esprimono le sue canzoni non si trova nella poesia popolare polacca”

(da Papusza di Angelika Ku?niak, traduzione italiana di Mariagrazia Pelaia)

La più grande poetessa rom del dopoguerra, semisconosciuta e sempre più povera, si nascose nei boschi ucraini della Volinia durante le persecuzioni naziste. Si salvò, una delle poche fortune della sua vita, mentre 35.000 zingari polacchi, vittime del Porrajmos, la Shoah di rom e sinti, finirono nei lager. Trascorse lunghi anni che solo la musica e il suo canto seppero allietare, scrisse canzoni per il marito Dionizy e il suo gruppo, cercò di afferrare con i suoi versi la natura, il cielo, il cammino della carovana, un mondo gitano che stava scomparendo.Saranno la “memoria” di una cultura sconosciuta quei versi, una cultura ormai sparita, ingoiata da persecuzioni e modernità.Ma Papusza pagò duramente con l’esilio dal suo popolo, la povertà, la solitudine, la pazzia.

Jowita Miondlikowska, Antoni Pawlicki

Papusza (2013): Jowita Miondlikowska, Antoni Pawlicki

Nel 1949 il traduttore ed etnologo polacco Jerzy Ficowski, vissuto due anni sui carri gitani, decise che i suoi versi dovessero essere conosciuti.

Forse Jerzy era l’uomo che Papusza avrebbe amato, il film è discreto ma eloquente su questo, e forse anche Jerzy l’avrebbe amata, ma appartenere a mondi diversi è come vivere su due pianeti.

La poesia li fa incontrare, le ballate di Bronis?awa Wajs appaiono nel 1950 sulle colonne della rivista polacca Problemy, ma se per Jerzy quella passione fu l’avvio di una brillante carriera accademica, per Papusza fu solo dolore.

Rinnegata dalla sua comunità, dichiarata “impura”, la mente si sconvolse e l’ospedale psichiatrico la ospitò per mesi.

Alla fine Papusza decise di non scrivere più fino alla morte, si convinse di aver commesso una colpa imperdonabile imparando a scrivere. Bruciò le sue poesie, poche ne sono rimaste e su lei calò il silenzio fino a pochi anni fa.

Zbigniew Walerys, Jowita Miondlikowska

Papusza (2013): Zbigniew Walerys, Jowita Miondlikowska

La bambola era spezzata, definitivamente, aveva resistito tanto, da quando, bambina, le davano botte se scoprivano un quaderno, o, giovane donna, aveva visto andar via Jerzy verso il suo mondo gaje.

La poesia l’aveva accompagnata, spontanea, naturale, era il canto del suo mondo, ma quel mondo non la voleva.

Nata e vissuta in un tempo sbagliato, Papusza ha conosciuto solo emarginazione e rifiuto, vittima anche lei, come il suo popolo, di pregiudizi e persecuzioni.

Ai rom vari governi imposero, annientandoli, la fine del nomadismo durante il secolo passato, ma soprattutto dopo la seconda guerra.

In lei molti videro una responsabilità grossa in tutto questo.

scena

Papusza (2013): scena

Il film rende ragione alla vera Papusza, mostrandola nella sua identità autentica di donna diversa, ricca perchè colma, come le grandi poetesse a partire da Saffo, di un dono che non tutti possono capire, ma che illumina il futuro.

 Un magnifico bianco e nero si addice agli scenari severi delle grandi pianure polacche gelate, a riprese su campi lunghi di spazi infiniti percorsi da carovane di zingari, a sfondi di superbe città come Cracovia dove i rom possono occupare solo case periferiche e lacere, mentre grandi Chiese e bellissimi monumenti dell’antico voivodato inorgogliscono dentro le antiche mura.

Magnifici intermezzi di musica gitana e kletzmer sospendono a tratti il racconto, affidato ad un ritmo sincopato e flashback che a volte lasciano interdetti. Alla fine però il puzzle si delinea e si completa.

I due registi non potevano dare una convenzionale continuità ad un racconto che parla di nomadi, gente che rifiuta per statuto la radicalizzazione. Papusza non poteva essere capita se non per rapide illuminazioni seguite dal buio, essere donna e poetessa può essere una condanna a vita.

Ma la vita della poesia ha tempi diversi, non misurabili con i nostri asfittici metri.

Guardo qui, guardo là –
tutto ondeggia! Il mondo ride!
Un mare di stelle di notte!
Ciarlano, ammiccano, brillano.


(Da Guardo qui, guardo là, diPapusza, traduzione italiana di Paolo Statuti)

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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