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Le stanze aperte

Regia di Francesco Giordano, Maurizio Giordano vedi scheda film

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La recensione su Le stanze aperte

di mck
6 stelle

“A chi può servire?”

 

Le Stanze Aperte” di Maurizio (aka: @maurri63; produttore per/con VED) e Francesco (direttore della fotografia e operatore alla macchina) Giordano {che, entrambi registi, montatori, supervisori del suono e - con Giuliana del Pozzo - sceneggiatori [pre (soggetto, idea, intenzione) e post (riordino, editing, scoperta) riprese], organizzano il materiale cinematografico e umano “a disposizione”}, girato nel 2012-'13 col patrocinio del Ministero della Giustizia, è un documentario di finzione che, nel corso del suo svolgersi, oltre a inserirsi nell'a suo modo vasto filone della non fiction carceraria {“Tutta Colpa di Giuda” di Davide Ferrario del 2009, “Cesare Deve Morire” di Paolo e Vittorio Taviani del 2012 e alcune puntate de “i Dieci Comandamenti” di Domenico Iannacone [parentesi: suo è il miglior cinema italiano 2018-'19 (al pari con e al contempo diversamente da "Santiago, Italia" di Nanni Moretti), i cui vari documentari fanno un ottimo utilizzo dei droni (la peste del cinema di questo inizio di secolo), da far invidia a registi blasonati] dal 2013 ad oggi}, procede perseguendosi, s'inoltra cercandosi e si dipana ritrovandosi per divenire poi finzione documentaria: scopertamente didascalico (inizia con una “Redemption Song” prisencolinensinainciusolizzata e con la coraggiosa presa di coscienza del consapevole “A chi può servire?” fatto declamare dal protagonista...) e sanamente ingenuo

 

 

[...e prosegue, fra troppe dissolvenze (un abuso che, come contropartita, rende paradossalmente fluido lo scorrere dei frammenti), un azzeccato zoom all'indietro e un'inopinata “S.S.Lazio”, con Vivaldi, Mozart, Bach e Chopin utilizzati con prepotenza: a volte bene - il breve inserto di frenetico montaggio pittorico-aclockworkiano con la bella stagione vivaldiana al posto della gazza ladra rossiniana, e le lunghe sequenze finali bartasiane nell'O.P.G. smantellato - e altre meno, oltre ad essere totemicamente punteggiato dall'irrinunciabile (facile, dirlo da Fuori, eh) emblema - non musicale, ma aromatico (dell'alcaloide trimetilxantina) - del “Ah!, che bell'o café / Pure in carcere 'o sanno fa' / Co' 'a ricetta ch'a Ciccirinella / Compagno di cella / Ci ha dato (preciso a) mammà”, e ripetendo l'inesorabile cliché (che, come tutti i cliché, resiste all'usura perché contiene anche un po' di verità), indicandosi la tempia con l'idice, che “la libertà è qui dentro”],

 

 

è costantemente innervato dalla forte presenza scenica e umana di Vincenzo Merolla [classe '55, tanto teatro, fra cui un “Non è vero, ma ci credo!” di Luigi De Filippo (la sua versione della commedia paterna), un po' di televisione e piccole parti in “Mi Manda Picone” di Nanni Loi, “Pianese Nunzio, 14 Anni a Maggio” di Antonio Capuano, “l'Uomo in Più” di Paolo Sorrentino, “il Resto di Niente” di Antonietta De Lillo, “Fortapàsc” di Marco Risi e “Sul Mare” di Alessandro D'Alatri], indiscutibile valore aggiunto, che, nella prima parte, girata nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario c/o il Centro Penitenziario di Secondigliano “vista” Vele (e viceversa: Scampia confina adiacente), dialoga tanto con Giuliana del Pozzo (intrusa/visitatrice e attrice-sceneggiatrice) quanto con i detenuti e gl'internati (per loro il fine pena è burocraticamente e legislativamente, ovvero kafkianamente, a volte, più difficile da raggiungere, o più facilmente procrastinabile), facendo da ulteriore ponte e trait d'union tra i “due” mondi, e nella seconda si ritrova, one man show, a girovagare in caccia di giaciglio – dopo essere stato rimesso in libertà (molto bella la sequenza dell'uscita dai cancelli della Fabbrica di Sani e Redenti, col corpo dell'attore che avanza sbilenco e randomico in continua ricerca dell'assetto nell'atto di riabituarsi allo spazio, al movimento e alle traiettorie della brada vita civile) ed essersi presentato a casa, (in)convitato di pietra [scena che contiene la più volutamente triste, misera e insipida intavolata di fusilli dell'intera storia del cinema, seconda solo a qualche “Cinico TV” (Sicilia) di Ciprì e Maresco e al Suco di Nonna Mmerda (un Sud avito, "ideale", mitopoietico e onnicomprensivo) dell'indimenticato “456” di Mattia Torre, prima a teatro, poi condensato per la tv in “the Show Must Go Off” di La7], solo per essere rispedito al mittente, o nell'abnorme mucchio-caterva delle vite inevase là fuori (molto forte, naturalmente, per la sua stessa essenza, la sequenza di fotografie e documenti in tremenda parata: cascami, rigaglie, lacerti di vite future vissute e/ma abortite), dagli abitanti (i suoi famigliari, degli "estranei") che la occupano – nelle dismesse stanze dell'ex O.P.G. di Sant'Eframo (NA).

 

* * ¾ (***)

 

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