Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Non ho mai letto Thomas Pynchon per intero. Al massimo sono arrivato a pagina 23 de L'arcobaleno della gravità. Non sono abbastanza intelligente per capirlo né abbastanza colto per afferrarne le sciarade e la prosa arzigogolatissima. Ma è colpa sua se quell'altro pazzoide di Paul Thomas Anderson (chi altro, altrimenti, avrebbe potuto avere l'ardire di portarlo sul grande schermo?), che di film estremi se ne intende (Magnolia, Ubriaco d'amore, Il petroliere e The master sono tutti, in maniera diversa, estremi), nel partire dal suo romanzo ha girato la più parossistica di tutte le sue opere. Vizio di forma è programmatico fin dal titolo, che non rimanda al lessico giuridico, ma semmai all'incomprensibilità dell'intreccio. È un film labirintico, di una verbosità torrenziale, lunghissimo (due ore e mezza); straborda di trame e sottotrame, sostenute da una miriade di personaggi che appaiono e scompaiono all'interno di una cornice impegnata a ricostruire la cultura psichedelica di quell'epoca. E c'è tanta droga, spinelli a gogò, narici imbiancate. Lo spunto narrativo è apparentemente semplice: siamo nella California del 1970, la musica d'epoca è quella dei Can e di Neil Young (ma la colonna sonora l'ha firmata Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead. Doc Sportello (Phoenix) è un detective privato con il debole per i cannabinoidi che si vede improvvisamente comparire sull'uscio di casa una sua vecchia fiamma (Waterston), la quale gli chiede di scoprire che fine abbia fatto il suo attuale compagno, un magnate che qualcuno ha voluto internare in una clinica psichiatrica. Tra poliziotti dalle maniere spicce (Brolin), dentisti pedofili, trafficanti di eroina, agenti infiltrati in una setta neonazista e una diffusa sindrome da nuovi Charles Manson, Doc cercherà di sbrogliare la matassa. Mi è parso che ci sia riuscito, ma non ne sono sicuro perché dormivo e i miei amici non me lo hanno saputo dire. Quindi diciamo che il finale è aperto.
Il Vizio di forma del film sta nel suo essere cervellotico come, presumibilmente, lo è il romanzo da cui è tratto. Alla libertà espressiva totale e al diluvio logorroico del copione - ideale contraltare ai 20 minuti di silenzio totale col quale si apriva quel capolavoro de Il petroliere - non corrisponde stavolta una messa in scena all'altezza: tutto sembra esagerato, sovraccarico, barocco, ipertrofico come i favoriti di un Joaquin Phoenix ancora straordinario ma sacrificato a un film dai marcati tratti grotteschi e surreali che ancora una volta mostra - alla stregua di Birdman - l'assoluto primato della tecnica sulla bellezza. È Baggio che sta in panchina, direbbe Baricco. La nuova forma di barbarie culturale.
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