Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Dalle missioni sulla carta (e che partono dalla stessa con destinazione cinema) più complicate possono celarsi grandi insidie, ma anche le più grandi soddisfazione, sia per un autore che per il pubblico alla (disperata) ricerca di qualcosa in grado di muoversi su territori capaci di andare oltre le solite regole e formule.
A Paul Thomas Anderson non mancano ne il talento ne la personalità, affronta la trasposizione di un testo di Thomas Pynchon (dopo aver rinunciato in corsa ad elaborarne altri di suoi) donandogli una nuova vita cinematografica con un personaggio d’antologia attorno al quale vi è tantissima carne al fuoco.
Quando, inattesa, si presenta alla porta la sua ex fidanzata Shasta Fey (Katherine Waterston), l’investigatore privato Doc Sportello (Joaquin Phoenix) ha un nuovo caso da seguire.
Deve ritrovare un uomo scomparso e ben presto finisce all’interno di uno scacchiere articolato con sempre più pezzi mancanti, e persone da ritrovare, con alle calcagne l’incomodo rappresentato dall’ispettore Bigfoot (Josh Brolin) che non ha nessuna intenzione di farlo “lavorare” in pace.
Nuovo tassello, e nuovamente fondamentale, all’interno della filmografia di Paul Thomas Anderson, regista già in passato capace di dar vita, ed a suo modo, a mondi complessi (“Boogie nights”, 1997) che questa volta si supera partorendo una creatura cinematografica con le carte regola per trasformarsi nel tempo in un vero e proprio cult nonostante un’accoglienza fin troppo (ed immeritatamente) tiepida.
Innanzitutto riesce a trovare fin dalle prime battute un tono generale personale che pur avendo diversi punti di contatto con diversi film (“Il grande Lebowski” per il personaggio icona e per i casini nei quali si infila anche se nel caso di Doc c’è un approccio meno nichilista) ed autori (il da più parti citato Robert Altman) assume una fisionomia in grado di smarcarsi dal già visto entrando a piedi uniti in un universo di passaggio dall’utopia, ormai incrinata, degli anni sessanta ad una società corrotta e doppio giochista con i giorni spensierati ormai relegati ai ricordi (splendidi, come quella corsa rigorosamente a piedi nudi sotto la pioggia alla ricerca della droga dopo un segnale giunto “dall’alto” di un ouija) con gli hippie destinati a fare i conti con la corruzione ed un mood in rapida evoluzione.
E nella logica d’insieme si ritrova l’innata abilità del regista di ricreare un ambiente, con un occhio speciale ai dettagli di contorno (che con ogni probabilità arricchiranno le successive visioni) e la capacità di gestire una trama che esplode in intricate diramazioni con una serie di personaggi che si accavallano l’uno sull’altro nella ricerca di Sportello.
Così quest'ultimo finisce con l’essere al centro in tutte le scene (e non è un modo di dire, è proprio in tutte), tra una canna e l’altra, tra una rivelazione ed una disavventura e Joaquin Phoenix si supera in bravura (si merita almeno un Oscar simbolico) regalando uno di quei rari, ancora di più oggigiorno, personaggi della storia del cinema che diviene indimenticabile, tra il suo modus operandi, le sue affermazioni e pure le sue lacrime (clamorose di fronte a Bigfoot/Josh Brolin.
Ed attorno a lui si muovono una serie di personaggi/interpreti degni del miglior cinema corale, inquadrati in piccoli (siparietti ironici e disincatati) e grandi (scene geometriche o incredibilmente liberatorie) squarci di cinema; tra questi sconquassa, la fino ad oggi poco nota, Katherine Waterston (per lei giusto quattro scene, ma tutte crocevia ed occhio al suo ritorno a ¾ film), mentre Josh Brolin con la sua mascella squadrata ed il taglio a spazzola incarna un altro personaggio cruciale, tra velleitarie ambizioni e modi irascibili.
Da segnalare inoltre l’accompagnamento musicale di Jonny Greenwood, praticamente sottofondo si sentono sempre delle note echeggiare e la musica diventa in questo modo un vero e proprio ulteriore sfondo che solo per brevi intermezzi cresce di volume.
Così, tra una canna d’erba e quella successiva, una grande quantità di nonsense ed una ricerca sempre più dilatata, si finisce risucchiati all’interno di un quadro elaborato fatto di dettagli in perenne evoluzione fino a giungere ad un finale che non deve fare chiarezza assoluta o spiegare ogni cosa, bastano poche parole ed una luce ad illuminare un paio di occhi.
Prelibatezza cinefila.
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