Da oggi "Il grande sonno" non è più il film dalla trama più incasinata di tutti i tempi. "Vizio di forma" oltrepassa il film di Hawks nel mettere in scena un garbuglio noir così inestricabile che la sua soluzione perde ogni importanza. Il film di Hawks non annoiava, nonostante la zavorra tramica, grazie alla regia asciutta e brillante di uno dei maestri della Settima Arte, alla affascinante atmosfera "fumosa", al carisma di Bogart e Bacall. Quello di Anderson funziona più o meno per gli stessi motivi. 150 minuti di dialoghi, abbondanza di primi piani, nessun virtuosismo della macchina da presa, nel tentativo di scovare un complotto criminale di cui in fondo non frega niente a nessuno: c'erano tutti gli ingredienti per un soporifero pacco e invece Anderson, nonostante sconti momenti di scarsa ispirazione e di leggero tedio, riesce nell'impresa di evitare il naufragio, proprio grazie alle sue sapienti e subdole doti registiche.
"Vizio di forma" è quello che si dice un "film di regia" e forse lo è in modo ancora più maturo e consapevole di quanto non lo siano opere ben più riuscite come "The master", "Il petroliere", "Magnolia" o chicche di virtuosismo come "Boogie Nights". Quei film contenevano sequenze di grande impatto visivo, a loro modo "spettacolari" (basti pensare alla pioggia di rane di "Magnolia" o alla corsa in moto nel deserto di "The master"), che dimostravano come fosse ancora possibile fase un cinema creativo e visionario sfruttando il linguaggio enfatico e massimalista di Hollywood. In "Vizio di forma" raramente troviamo simili pagine: il mare aperto che apre e chiude il film incornicia un'opera sostanzialmente claustrofobica, oppressa non tanto dagli spazi quanto dalle parole e dalle congetture mentali. La bravura di Anderson consiste quindi non nel fatto di aver girato sequenze di grande impatto, che vivano di luce propria, ma nell'aver condotto il prolisso, tortuoso, labirintico racconto pynchoniano su un tono omogeneo per tutta la durata del film. Quel mix straniante di surrealismo, grottesco, trash, assurdismo che contraddistingue da sempre la sua estetica non viene mai rinnegato nè esasperato in qualunque circostanza conduca l'indagine del protagonista.
E' un film senza climax, senza scene madri: forse la visita all'ospedale psichiatrico, che riassume un po' i vari nodi dell'intrigo, potrebbe costituirne il clou, ma in realtà anch'essa poggia su quella compassata bizzarria che caratterizza l'opera nel suo complesso, evitando derive visionarie (a differenza della pseudo-orgia di "The master" che invece scioglieva la briglia all'estro immaginifico). Inoltre, Anderson ha saputo rappresentare, attraverso questa forma filmica bizzosa e decontratta, l'universo mentale di un consumatore di droghe leggere. Da questo dettaglio, non certo secondario, si può spiegare l'assenza di sequenze allucinate, a differenza di film che invece filtravano la realtà attraverso la coscienza di tossicodipendenti "pesanti" (dal "Pasto Nudo" a "Paura e delirio a Las Vegas"): la Los Angeles in cui si muove spaesato Doc Sportello è il riflesso fumoso, sfuggente e incomprensibile della sua coscienza annebbiata ma al contempo stimolata dalle sostanze, al punto da vedere complotti che coinvolgano cartelli della droga, neo-nazisti, attori hollywoodiani, dentisti e hippies. Questi ultimi peraltro sono, al pari degli sbirri, le vittime preferite di questo quadro sarcastico della deriva degli ideali pacifisti e comunitari degli anni 60: la ferocia con cui Anderson irride questa umanità velleitaria, irresponsabile, letteralmente bruciata dagli acidi e dall'ero ha un qualcosa di moralistico. Ma non è certo il moralismo bacchettone e predicatorio di certi filmetti con lezioncina incorporata: Anderson fa saltare i simulacri del mondo-hippie servendosi della loro stessa iconoclasta ironia. Ovviamente, il bersaglio è tutta l'America nixoniana, vista come un caleidoscopio di situazioni e personaggi ambigui, collusi, "infiltrati", dove la distinzione fra buoni e cattivi è qualcosa di inafferrabile.
Un'altro pregio di Anderson è quello di aver condotto ogni sequenza sulla scorta di una gustosa e fertile dialettica fra il rimando ai classici canovacci noir (l'indagine, gli intrighi etc...) e la loro divertita sconfessione per mezzo di una ideologia post-moderna dura a morire: è come se il ritmo lasco e inconcludente di certi dialoghi subisse ogni volta un "elettro-shok" con il richiamo effimero alla trama. Tale ambivalenza pare riflettersi anche in un soundtrack in cui convivono gli anni 70 più celebrati (il grande Neil Young) e quelli più oscuri (la splendida "Vitamin C" dei tedeschi Can, sui titoli di testa).
Se quindi il film merita non più di un 7 in quanto succube di un testo letterario che in qualche modo prova a mangiarsi anche l'impianto audio-visivo (ed è questo fondamentalmente il peccato originale di Anderson, che impedisce a quest'opera di porsi al livello delle precedenti; difetto peraltro che ricorda quell'altro che, a mio parere,inibì "Non è un paese per vecchi" dei Coen), la regia in sè merita un 10. Ossia, per come è stato concepito e impostato il film, di meglio non si poteva ottenere. Certo, se Anderson avesse optato per un adattamento più libero da Pynchon, allora sì che sarebbe stato lecito pretendere più invenzioni, più voli pindarici. L'ultima parola è per gli attori e la notizia è che Phoenix, pur ottimo, perde il duello attoriale con il memorabile, irresistibile, strepitoso sbirro "Bigfoot" impersonato da Josh Brolin.
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