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Vizio di forma

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Vizio di forma

di amandagriss
8 stelle

P.T. Anderson, fondendo il suo sguardo con quello dello spettatore, osserva l’universo allucinato in cui si muove lo stralunato indolente fricchettone costantemente (o quasi) strafumato Joaquin Phoenix -sublime maschera, eccellente incarnazione della tipologia di ‘giovinastro’ figlio dei fiori- dell’ancora selvaggia Los Angeles degli anni ’70, nel bel mezzo di quel delicato momento storico, tra un’epoca che mestamente scivola via e un’altra che prepotente si affaccia sul mondo.

E nel passaggio, sempre difficile e traumatico, si registrano equilibri andati in frantumi, certezze o solo utopie credute concrete completamente disperse.

Si fa i conti con lenti ma inesorabili cambiamenti, nella politica come nella cultura, nella società come nell’urbanizzazione.               

 

Abbandonarsi al flusso della natura, vivere in spiaggia, indossare sandali camicie casual e giubbotti in jeans, lasciarsi i capelli lunghi fino alle spalle e non radersi i basettoni, condurre un’esistenza alternativa pare un motivo che adesso -quando siamo chiamati a prendere parte a questa storia- suona come una disprezzabile nota stonata.

Come un vizio di forma, un’irregolarità che inficia tutto ciò che è stato detto e fatto prima.

Dal magma stupefacente di una vita semplice e rilassata, accarezzata da un malinconico romanticismo, incentrata sulla spiritualità, l’espansione della propria coscienza, il rifiuto delle istituzioni e dei valori della classe media, la ferrea opposizione alla guerra, emerge (per vizio intrinseco o cause naturali contro cui nulla è possibile) il lezzo putrido di una nuova realtà che prende sempre più piede. Cinica, iperattiva, materialista, avida, fatta di sospetti, congiure, intrighi, segreti, bugie, morte.

Un’anima, quella americana, divisa in due: il passato che sta passando, fagocitando in grossi bocconi un traguardo di libertà e felicità che pareva inamovibile, il presente e l’imminente futuro (la ferita mai rimarginata del Vietnam e l’edonismo di un Reagan futuro presidente U.S.A a quel tempo governatore della California) a suggellarne per sempre la fine.

 

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P.T. Anderson col senno di poi, proprio di chi rivisita un’epoca andata (perduta?), illustra la bizzarra vicenda di un investigatore privato, dalla natura hippie, che indaga su una torbida faccenda nella quale è coinvolta la sua bella ex fidanzata, col fine di riflettere sui repentini spesso impercettibili mutamenti che si verificano nel nostro vissuto quotidiano, e che ci lasciano spaesati, impreparati innanzi ad un orizzonte degli eventi mastodontico e sconosciuto, forse (sicuramente) ostile, di certo poco adatto alle nostre innate inclinazioni.

Sulla base di questa insanabile frattura tra vecchio e nuovo, contemporanei hippies e futuri yuppies, vengono inanellate per il nostro protagonista una serie di (dis)avventure che destano incredulità, perplessità, straniamento, voglia di staccare la spina per quanto pare girino a vuoto e senza senso apparente alternata ad una famelica curiosità di arrivare al bandolo della matassa per conoscere l’esito del gioco (sempre che ce ne sia uno).

E nel frattempo si ride, a denti stretti e non, e si assapora l’amaro di innocenti giorni bagnati di pioggia fatti di nulla, che non torneranno mai più.

 

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L’autore di Boogie Nights penetra nella nebbia fumereccia che altera la percezione del mondo (in stato di alterazione) del "fattone" Larry ‘Doc’ Sportello (il suo ufficio è la stanza di un ambulatorio ginecologico!?), si fa spazio nelle pieghe sbilenche della sua esistenza assuefatta per seguirlo (e noi con lui) in questa stramba indagine privata che somiglia agli effetti di una droga psichedelica, popolata com’è di personaggi stravaganti e molto sopra le righe, di informazioni da ‘decriptare’, di situazioni paradossali al limite dell’assurdo, avvolta in un’atmosfera perennemente irreale o, se si preferisce, mai veramente palpabile. Inafferrabile, come la storia che ci viene raccontata.                                                                                                                           

Pur tuffandosi a capofitto in quegli anni lisergici con fare partecipe complice divertito, l'autore/regista non si lascia sopraffare dal perenne (o quasi) trip del nostro uomo, non si fa assorbire dalla sua visione ‘affumicata e trasognata’, non si piega, deformandosi (come accadeva in Paura e delirio a Las Vegas) al suo punto di vista ma permette alle immagini di mantenersi integre, affinché scorrano regolari e sobrie, affinché l’occhio ‘indiscreto’ -su cui ha il totale controllo- conservi la consapevolezza di sapersi presenza aliena che, viaggiando a ritroso nel tempo, si sofferma contemplando il dentro dal di fuori.

 

E sul finale, l'occhiata di ‘Doc’ lanciata dritta in macchina, (inter)rompe definitivamente il sogno già perduto.

 

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