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Vizio di forma

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su Vizio di forma

di M Valdemar
9 stelle

 

locandina

Vizio di forma (2014): locandina



Addentro l'intrico pynchoniano, P.T. Anderson non ne evita la stupefacente natura intrinseca, i vizi di una (ri)scrittura postmoderna che guarda con la malinconia del bambino un luogo nostalgico (i fine sessanta a L.A.) nel quale si tuffa con spirito nuovo e divertito, dissacrante. E così, guidati dal cuore puro e dagli occhi sconvolti/sopiti dell'indomito Larry "Doc" Sportello, ed inebriati dalla voce narrante che (ci) inietta dosi essenziali del (pen)siero dell'autore, ci si lascia inesorabilmente travolgere dalla storia, dai personaggi, dalle ondate filosofiche; ed immergere nelle vive e vivide, lisergiche atmosfere. Di difficile, se non impossibile catalogazione, il film, come il romanzo, flirta impavido col noir (quello classico, "alto"), si distende nei territori lerci della detective story, sniffa polveri di commedia grottesca, si concede come una puttana dai nobili ideali ad un sentimentalismo sorprendente per autenticità e sfrontatezza. Il tutto filtrato nelle/dalle calde, pastose luci acide (direttore della fotografia è il fidato Robert Elswit) di una città/stato della mente (strafatta eppur determinata) che riflettono - accompagnati da note e liriche ora struggenti («And we'll keep good time / on a journey thru the past» canta Neil Young) ora dolci ora sfuggenti ma anche confacenti ai tempi psichedelici (lo score originale porta sempre la firma di Jonny Greenwood, mentre in scaletta si alternano tra gli altri Can, The Tornados, Minnie Riperton, The Marketts) una visione estremamente naturale, fluida (malgrado il complesso svolgersi degli eventi). Orchestrando una partitura complessa e profondamente umana senza la paura di dover seguire pedissequamente la fonte letteraria ma servendosene e riversando in pellicola lo spirito anarchico, selvaggio, eccitato ed eccitante, il regista-sceneggiatore - e, ça va sans dire, uno dei maggiori cineasti viventi - afferra la materia plasmandola al suo (identificabile) linguaggio. E questo è ancor più evidente quanto più apparentemente sembrano distanti taluni momenti (il versante grottesco, certo, ma anche alcune scene fuori di testa, incomprensibili quasi), oltrepassandoli con la sicurezza dei grandi (l'ambiguo rapporto tra Sportello e Christian "Bigfoot" Bjornsen, attraversato da numerose vibrazioni dell'assurdo, reso come intenso incontro/scontro di anime borderline, speculari). Il ritratto che ne viene fuori, alla fine - e con/oltre ogni evidente traccia "allucinogena" (che comunque serve a creare i contesti, narrativi, ambientali e introspettivi) - è quello di una disperata, risoluta, bizzarra ricerca. Ovvero il senso dell'amore di Doc per Shasta. Grande cast d'attori (altra costante del cinema di PTA), con in testa il solito, incommensurabile Joaquin Phoenix; ma occhio alle strepitose performance di Josh Brolin, Martin Short (che sta poco in scena ma lascia il segno) e della rivelazione Katherine Waterston (figlia del grande Sam). Che film.

 

 

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