Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Con Journey Through the Past di Neil Young nelle orecchie riflettiamo, seduti su un ramo, sul nuovo film di P.T. Anderson, Vizio di forma. La canzone viene ripetuta due volte nel corso della lunga avventura (quasi due ore e mezza) del detective privato strafatto Larry “Doc” Sportello, ingaggiato dall’ex fidanzata Shasta per sventare la presunta macchinazione ai danni del suo nuovo boyfriend miliardario, perpretrata dalla di lui moglie + amante “guida spirituale”. La canzone sembra un’utile “mappa” per questo viaggio cinematografico nel passato, implicazioni politiche, psichedeliche, letterarie comprese. Il libro di riferimento è a dire il vero contemporaneo, il penultimo di Thomas Pynchon. Non un granché, per chi scrive, perché si può pensare al noir come strumento per dire altro, ma lo straniamento postmoderno caro allo scrittore finisce per allontanare ogni tragicità (di personaggi e situazioni) respingendo chiunque la consideri condicio sine qua non affinché il genere conservi specificità, spessore e persino dignità. Anderson dichiara fedeltà al testo (pare esista un primo copione con il libro sceneggiato frase per frase) ma non è Pynchon e la sua versione finisce per essere diversa, più chandleriana (vivaddio: il riferimento quasi preciso è al romanzo incompiuto Poodle Springs). Doc attraversa un’epoca nel suo cruciale passaggio dal miraggio di libertà degli anni 60 alla reazione dei 70, con Altamont, Nixon, Reagan (governatore della California), Cambogia e Vietnam dietro l’angolo a segnare il passo e il nuovo spirito del tempo. Al netto delle diverse dipendenze (erba in quantità industriale al posto dell’alcol), Doc è come Philip (Marlowe), o meglio il suo ritratto speculare, uguale e contrario al modello. Un’impresa eccezionale di “riscrittura”, riuscita: il personaggio sullo schermo ha l’anima che invece ci pare manchi nel romanzo di Pynchon, dove è puro pre-testo, un McGuffin semovente. Merito anche di Joaquin Phoenix, magnifico. Dell’intricatissima vicenda, alla fine, tutti i nodi vengono al pettine, ma sembra comunque di non aver capito nulla (noi spettatori e loro protagonisti). Poco importa: la geniale ultima scena (luce in faccia a Doc, sguardo in macchina) dà la giusta chiave di lettura del film. Che non è un capolavoro, non sposta l’asticella della storia del cinema, ma diverte confermando il talento del suo autore.
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