Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
I fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne s’impegnano su un soggetto alla Ken Loach, con uno sguardo estremamente lucido e una miriade di riflessioni, anche molto scomode e trasversali, che sgorgano, tanto da far divenire il film un titolo guida, almeno a livello teorico, da far vedere a tutti, partendo dai lavoratori e, prima ancora, da qualsivoglia sindacato del globo.
A livello puramente cinematografico c’è qualche intoppo, almeno paragonandolo al cinema pregresso dei fratelli belgi, ma la lezione è impartita ad hoc.
Sandra (Marion Cotillard) rischia di perdere il posto di lavoro e, con l’aiuto di suo marito (Fabrizio Rongione), ha un week end per convincere i suoi colleghi a rifiutare un bonus che preclude la sua presenza in azienda.
Passa così di casa in casa per parlare singolarmente con i suoi colleghi, che si dividono tra chi non farebbe mai uno sgarbo del genere a una persona e chi deve/vuole pensare alle sue impellenti necessità.
Per fare tutto questo, ha bisogno di una forza che non possiede da tempo.
Depressione e forza per combattere, la solidarietà che rinvigorisce e un egoismo che affossa la speranza, con un quesito scomodo, improponibile, che porta a una guerra tra umili, suggerita dall’alto lavandosene le mani.
Due giorni, una notte è una processione sofferta, con il più debole tra i deboli che viene rigettato come se fosse un corpo estraneo, spesso per interessi non vitali, come rifare un balcone, con improvvisi squarci, non casuali, e con l’idea che lavorare di meno potrebbe far lavorare tutti messa al macero, una posizione affatto banale ma che il sistema, insensibile e scientemente preparato, non contempla nel suo vocabolario.
Inevitabilmente, il procedimento rischia di riverberarsi, aspetto che al cinema non porta bene, ma poi trova anche nuove sfumature, alcune volte accurate, come il giovane assunto a tempo determinato, altre volte meno, come il dietro front, non spiegato, di una donna che rinuncia improvvisamente a tutto.
Cruciale è il ruolo di Sandra, costruito sulle esili spalle di Marion Cotillard, scelta che genera una doppia considerazione; un volto conosciuto, e fuori dalle corde autoctone dei registi, è meno credibile di una sconosciuta presa dalla strada, o dalle retrovie, come i Dardenne hanno tante volte fatto, ma un’attrice con cotanto pedigree sa ovviare alle circostanze, e sul set è stata trattata come una persona qualunque, coprendo l’arco emotivo sfoggiando la sua innata bravura.
Al di là di ogni possibile dubbio, è palese che oggi tocca a me e domani a te, siamo tutti sulla stessa barca, ma la coesione vacilla e nasce una competizione lacerante, è sempre facile prendersela con i colpevoli e i poteri forti, ma poi ognuno, nel suo piccolo, è portato e chiudere gli occhi; per fortuna, rimane un orizzonte, fare la cosa giusta attenua la delusione della sconfitta aprendo il cuore e, soprattutto, nuove prospettive.
Quanto mai necessario per la sostanza, sul resto i Dardenne han fatto molto meglio, ma si parla pur sempre di campi complementari che nell’insieme generano un’opera.
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