Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
I fratelli Dardenne non ci mettono molto, almeno in questo caso, a buttare lo spettatore nel mezzo delle cose. All'inizio del film non siamo all'inizio della vicenda, siamo già in medias res. Molti fatti sono già accaduti e solo l'odissea fisica della protagonista deve ancora cominciare. Sandra ha avuto un esaurimento nervoso - o una depressione, come si dice oggi - e il suo datore di lavoro, visto che la produzione è continuata anche senza di lei, ha deciso di liberarsene. È presumibile che, di fronte alla opposizione degli operai, il «padrone» abbia dovuto indire un referendum, mettendo i dipendenti di fronte all'alternativa di salvare il posto di lavoro di Sandra o il loro bonus da mille euro.
Ho letto che qualcuno ha criticato la situazione di partenza messa in piedi dai Dardenne, perché i lavoratori non lottano e piegano la testa di fronte al diktat del loro datore di lavoro. Di conseguenza, si è argomentato, tutto quello che segue questa premessa sbagliata non può reggere ed è quindi scarsamente credibile. Ma la lotta sindacale, in quell'azienda c'è già stata e i lavoratori l'hanno persa. Questa è la situazione di partenza, che vale non soltanto per la piccola impresa belga descritta nel film, ma anche nella nostra attuale, brutta, società. La carne se la sono spolpata altri, mentre ai lavoratori non resta che scannarsi l'un l'altro per i pochi ossi rimasti. È di questa guerra tra poveri che parla Due giorni, una notte, che in Italia dovrebbe far riflettere chi plaude al governo (o chi, sul fronte sindacale, non si oppone a dovere) per l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Come capita spesso nel cinema dei due fratelli del cinema belga (ma pochi autori attuali sono più universali di loro), da una situazione di vita vissuta può nascere una tensione da film thriller, così come possono confondersi il Bene e il Male, da una premessa negativa può nascere una conseguenza positiva (e viceversa), nel buio si intravede sempre un po' di luce, anche se la luce non è mai radiosa come prevedono le fiabe.
«Abbiamo combattuto bene, sono felice» è la battuta di dialogo che sintetizza il senso di Due giorni, una notte, perché se nei libri di Kerouac e di Chatwin ciò che conta è il viaggio in sé più che la meta stessa del viaggio, in questo film la lotta per il posto di lavoro e per la propria dignità assume un valore in sé, perfino al di là del conseguimento effettivo del risultato.
Di questa lotta sono protagonisti personaggi impersonati da due ottimi attori, come Marion Cotillard (probabilmente la migliore interprete femminile nell'attuale panorama del cinema francese) e Fabrizio Rongione. La prima recita ingobbita e curva, come sotto il peso di una situazione psicologicamente e fisicamente insostenibile, esprimendo il proprio disagio e la propria prostrazione psicofisica anche con le imperfezioni della pelle. Il coprotagonista svolge alla perfezione il ruolo di spalla - in tutti i sensi - fungendo da discreto e baricentrico pilastro per la moglie, nel suo viaggio al termine della notte.
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