Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
C’è modo e modo di fare “cinema sociale”. I fratelli Dardenne usano sempre quello, anche stavolta, con l’asciuttezza che li contraddistingue e che mai come questa volta rischia di sprofondare (in buona misura riuscendoci) in una noia e una prolissità quasi fastidiose. Lo scenario è presto fatto: tradotto in cronaca, basterebbe un piccolo trafiletto di spalla nella rubrica “guerra tra neo-poveri borghesi”, un articoletto destinato a poco successo visto che, molto borghesemente, i registi scelgono una guerra pulita e all’arma bianca, battagliata tra una Ford Focus col TomTom di serie e un’avanguardista fabbrica di pannelli solari anziché sulle barricate delle banlieue in fiamme o degli alloggi occupati abusivamente, magari condita con un pizzico di sano razzismo (cosa che al giornalismo di grido piace molto di più); tradotto in prosa, dei sedici personaggi/colleghi che circondano Sanrdra/ e ne costituiscono il tribunale che ha in mano le sorti del suo futuro, le tipologie sono presto fatte: due grossi gruppi, quelli sodali e quelli no, alcuni sottogruppi minori che, tra i sodali, annoverano coloro che hanno scrupoli di coscienza/sensi di colpa/motivi di autoaffermazione esterni alla vicenda, e tra i non sodali hanno i menefreghisti puri e quelli che se ne fregano di loro stessi prima che degli altri, con estrema e candida nonchalance . Sandra si sforza di non dare la colpa a nessuno, ma avrà anche lei bisogno (naturalmente, essendo di partenza, lei reduce da un congedo per esaurimento nervoso e persona in grado di pasteggiare a Xanax, la più debole di tutti) di un capro espiatorio per poter liberare la propria coscienza. E soprattutto perché non ci sono santi, né eroi nel cinema dei Dardenne.
L’ineluttabile deriva borghese verso la nuova povertà, quindi. Strisciante (ma sempre meno), subdola, ancora impercettibile fintanto che una cena con quattro pizze take-away possono ancora profumare di insensate speranze le famigliole della middle-class in crisi di ossigeno, tutto politicamente correttissimo ed ineccepibile.
Cosa non va, allora in questo film?
Comincerei con un giochino. Immaginate di avere con voi in sala, nel vostro profumato smartphone, un’applicazione che possa, in tempo reale, segnalarvi quante volte, in tutto il film, si senta pronunciare la parola “Sandra”: dubito che i gigabyte (si legge: gigabàit) di ROM del vostro apparato mobile (si legge “mobàil) sarebbero sufficienti, visto che solo nei primi cinque minuti Manu/Rongione (il marito di Sandra), lo ripete in continuazione. Fate pure che non c’avete lo smartphone (a me, capita spesso...), e che vogliate soltanto visivamente misurare quanti minuti (quarti d’ora?) la MDP sta sul sedile posteriore della Focus a inquadrare la Cotillard che si sforza di sorridere al marito. E basta. Fate anche poi, se avete ancora voglia di affinare un po’ il lavoro, che della vicenda è tutto chiaro sin dai primi dieci minuti, che non si va a scoprire niente, che due giorni e una notte sono passati a inseguire gente come i nostri vicini di casa (sì sì, proprio quei noiosi che c’abbiamo vicino casa), per chieder loro quello che già sappiamo benissimo, persone che, piuttosto che incendiare banlieue, si guardano tre volte di fila “Il Signore degli Anelli” barricati in casa coi pop corn, e che se invece ti aprono un attimo la porta per ascoltare le tue ragioni, risolvono solo di riconoscere se stessi in te che suoni, con un cartone di birra in mano a chiedere se puoi entrare a sederti con loro... insomma: fate di aver visto per la terza volta di fila “Il Signore degli Anelli”, ma senza musica, senza Gollum, senza uno straccio di effetti speciali o un cesso di drago che vi tenga svegli.
Fate infine che un’attrice come Marion Cotillard (della quale avete magari stima e fiducia) appaia qui quasi imbarazzata dal suo ruolo, imbastita, rigida, come fosse stata plagiata, o imbottita davvero di Xanax...
Ecco: questo è il film dei Dardenne. Auguri.
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