Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
E pensare che hanno fatto intendere, con Le gamin au vélo, di essersi ammorbiditi.
L’età che avanza, i consensi da ogni parte del mondo, i premi portati a casa, l’agio e il benessere che inevitabilmente ne derivano, potevano indurre i fratelli Dardenne ad allentare la presa, edulcorare (finalmente?) il loro sguardo amaro tagliente lucido attento, da entomologi sociali, e spruzzare un po’ di colore sulle storie di ordinaria miseria della nostra umanità che da sempre raccontano con passione e coraggio.
E invece spiazzano tutti, fanno storcere il naso al purista cinefilo, all’intellighenzia del settore che a Cannes risponde all’affronto negando ai 2 cineasti belgi quei riconoscimenti dispensati per anni (e a giusta ragione).
I quali evidentemente sapevano che con questo loro ultimo lavoro non avrebbero avuto vita facile.
Ma lo hanno realizzato ugualmente. In barba all’Arte e al cinema stesso.
Piantano i piedi a terra, Jean-Pierre e Luc Dardenne, più di quanto abbiano mai fatto, e documentano il reale.
Il loro è un racconto di finzione, certo, ma il livello di verosimiglianza fa rabbrividire.
Perché mettono in scena la realtà, l’atroce realtà lavorativa e (dis)umana dei nostri tempi.
Scarnificandola per renderla essenziale, quanto più aderente possibile al vissuto reale di persone reali. Senza distrazioni di contorno o abbellimenti di forma.
E scelgono il silenzio, nessun commento musicale (extradiegetico) ad enfatizzare il momento e muovere al pianto.
Nessun espediente tecnico. La realtà parla benissimo da sola.
Le tragedie della vita vera si consumano in silenzio. Anche se in ognuno di noi risuona la propria colonna sonora ad accompagnare i nostri disgraziati giorni, o forse, la verità è che non c’è davvero nessuna musica se non quelle canzoni che casualmente ascoltiamo alla radio (e che casualmente cascano a fagiolo) mentre “ci battiamo per conservare il nostro posto di lavoro”.
L’unico trucco a cui ricorrono è una straordinaria Marion Cotillard, anima corpo e voce di tutti coloro che si trovano ad affrontare e fronteggiare la perdita del lavoro, l’ennesimo di una lunga serie probabilmente, come crisi economica globale impone. E dietro la quale innumerevoli aziende si nascondono per celare i loro reali immotivati motivi.
I fratelli Dardenne vanno dritto al punto, scandagliando con occhio scientifico quei meccanismi psicologico-emozionali e relazionali che scattano come pura conseguenza ad un licenziamento, visto che ancora ci ostiniamo a vivere credendo che il lavoro non solo sia un diritto ma nobiliti anche l’uomo che gode di questo diritto, e quando esso manca, viene a mancare letteralmente la terra sotto i piedi insieme all’autostima, al rispetto per se stessi. Col terrore di non riuscire più a preservare la propria dignità.
A quanto deve abbassarsi una persona per non perdere il proprio posto di lavoro?
Cosa è disposta a fare perché non succeda?
E questo suo dannarsi l’anima, bussare porta per porta per un intero fine settimana -sacro per chi ancora un lavoro ce l'ha- affinché i colleghi votino a favore del suo reintegramento piuttosto che accettare l’allettante bonus di mille euro che metterebbe a posto parecchie faccende personali, è giusto? è normale? è una regola del gioco o è soltanto una violenza, un’altra forma di violenza messa in atto dai boss nei confronti dei loro impiegati?
Perché sono loro i perversi burattinai, secondo i dettami della contemporanea economia globale. Sono loro a scatenare un’impietosa guerra tra poveri, mentre se ne stanno placidi negli uffici lindi e pinti ad aspettare, immobili, che il dado venga tratto.
Le loro aziende sono laboratori sperimentali e la gente che vi lavora, inconsapevoli cavie.
Ma era davvero necessario questo calvario mortificante a cui assistiamo agghiacciati o poteva essere evitato?
Per gli autori de L’enfant è indispensabile indagare e sondare il grado di umanità, empatia e solidarietà tra le persone.
C’è ancora spazio per questi ‘sentimentalismi’? Siamo (ancora) uomini o solo bestie feroci pronti a sbranarci per garantirci la sopravvivenza?
Ci culliamo nel mare dell’indifferenza per le sciagure altrui, del non coinvolgimento emotivo (ognuno hai propri guai) o ci sentiamo in qualche modo partecipi, forse perché sappiamo di trovarci tutti, indistintamente, sulla stessa barca?
O perché conserviamo ancora un’anima, una coscienza che ci impedisce di voltarci dall’altra parte?
I militanti Dardenne non voltano le spalle al mondo, alle nuove generazioni, ma con questo film o documentario di finzione incitano a lottare e stringere i denti, e insistere, insieme, per far valere i diritti degli esseri umani, per non cadere nell’apatìa, nella rassegnazione, nella trappola di ricatti umanamente inaccettabili, per non farsi preda della viltà, dell’egoismo ottuso e distruttivo.
Sono consapevoli di quanto sia difficile non lasciarsi affondare, e forse con Due giorni, una notte, guardato oggi e riguardandolo in futuro, si avrà un motivo in più per non arrendersi.
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