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Due giorni, una notte

Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film

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maurri 63

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Due giorni, una notte

di maurri 63
5 stelle

Tanto v'amai, che piansi.

 

Ci sono giorni neri nella vita: quando perdi una donna (o un uomo), quando scompare una persona cara...e perfino quando i soldi non bastano per arrivare a fine mese. Nerissimo è il giorno in cui Sandra sta per perdere il lavoro: il suo datore ha deciso infatti che, a fronte del suo licenziamento, garantirà un bonus di mille euro a ciascun dipendente che voterà contro il reinserimento della donna, ormai da tempo a casa, causa depressione. Saputa la notizia, grazie ad un'amica, Sandra, spinta dal marito, prova a far cambiare idea i suoi colleghi. Fin qui, l'esilissima trana che sembrerebbe appartenere più a Ken Loach, che ai due fratelli belgi, appare almeno accattivante. Nei miei giorni più neri sono ricorso agli amatissimi Dardenne per riprendermi la vita sfuggente, ma oggi qualcosa è cambiato.

Errori di sceneggiatura

Chiaramente scritto in funzione di un'eroina da pedinare, il film parte in quarta: offre cinque minuti che bastano a presentare il personaggio; ma ne spreca malamente 55 solo per farci incontrare una galleria di facce pronti a difendere il "proprio" diritto a ricevere 1000 euro, perché "servono". Qui sta il punto dolente: la storia arranca, procedendo per accumulo, e lasciando lo spettatore ignaro a chiedersi perché "nelle aziende oggi si parla di solidarietà" quando questi sembrano tutti cani da presa. Certo, il potere persuasivo della donna e la sentita discriminazione che si avverte nella maggior parte dei coinvolti, stemperano un po' questa sensazione, ma non c'è nota dolente, non c'è compartecipazione nella risposta. L'unico che sembra fornirci una minima commozione è il giovane "allenatore" di ragazzini, che piange di fronte alla signora disperata. E qui sta l'altro punto: Sandra non è veramente disperata; condivide le ragioni dei "no", si immedesima, perfino quando una delle colleghe dice che "stanno ampliando la casa" (ma come, è una cosa superflua!...), la donna sembra poco convinta della sua necessità di rientrare al lavoro. Infatti, tutto quello che sta facendo è dettato dal marito, che sostiene "senza il tuo stipendio non possiamo permetterci la casa": a parte il fatto che se l'avessi detta io questa frase, apriti cielo!, mi avrebbero sbattuto "hai voluto la bicicletta..", ma lasciamo stare. Ma l'obiezione della donna ("non so se sono in grado di riprendere") è banalizzata dal compagno ("sciocchezze. Ce la farai benissimo. Ormai sei guarita"). Ma nel corso degli eventi, scopriremo pure che i due "non fanno l'amore da più di quattro mesi". Ed il pubblico maschile, guardando il marito, che ha di fronte una super-mega-ultra-Cotillard, si chiede se stiano scherzando, questi bricconi dei Dardenne.

Marion Cotillard

Due giorni, una notte (2014): Marion Cotillard

Errori di forma

Nello stile dei due cineasti belgi, l'idea del documentario è bandita. Il film è "esso stesso" un documento. Non v'è distinzione tra materia "narrata" e materia "documentata". Ma questo assunto, quando si dirige una diva del calibro di Marion Cotillard, perde in pratica la sua forza. Infatti, non solo non è credibile (e non potrebbe : i lineamenti, la prestanza, l'andatura sono in totale contrasto con gli altri interpreti. Ci si chiede ad ogni minuto "come è possibile che costei faccia l'operaia" ?), ma per una sorta di devozione, i due registi le regalano campi larghi, ingentilendone la figura statuaria, l'esatto opposto dell'immagine "negata" che ci fornivano con "Rosetta". Eh, sì: dopo l'ampia perdita di consensi de "Il ragazzo con la bicicletta", Jean Pierre e Luc hanno sentito il bisogno di tornare alle origini. Ma i tempi sono cambiati; l'idea è stata sviluppata da numerosi altri film; la freschezza del narrare di una pellicola "marginale" quale "Rosetta", appunto, o la sintesi algida e sorprendente di "Il figlio", si perdono in un percorso prevedibile, forzoso e visibilmente pretestuoso: chiaro sintomo di un "empasse" di sentimenti, e mancanza di un appiglio cinematografico solido. Il punto è che i Dardenne nascono in un contesto "basso", utilizzando attori spesso non professionisti, scenari suburbani degradati e il passo odierno, raggiunto plebiscitariamente, non lo consente più. Non a caso, la direzione degli attori (si noti soprattutto l'assenza di spontaneità nei bambini) è decisamente al di sotto della media: il contrasto, poi, tra il livello attoriale della protagonista e i caratteristi non giova al film, che risente di una parvenza di recitazione dilettantesca (non sono gli attori a darne conto, ma non v' è amalgama tra essi). Nel film, ed è inconcepibile in un racconto che parla di lavoro, non si avverte la polvere della fatica, il sudore dei corpi, la stanchezza sui volti. Perfino la fabbrica appare linda, con i muri dipinti di bianco, le magliette dei dipendenti pulitissime, nuove, che sanno di fresco. La canotta esibita da Marion Cotillard, quindi, sembra quasi un elemento divistico, su cui i due cineasti puntano , scopertamente, per ottenere consensi più larghi.

Fabrizio Rongione, Marion Cotillard

Due giorni, una notte (2014): Fabrizio Rongione, Marion Cotillard

Errori di stile

Nonostante un grande dispiego di mezzi, al contrario di ciò che avveniva nei precedenti lavori, la fotografia è poco curata: anche se la storia si svolge come dice il titolo, appunto, in due giorni e una notte (il tempo che occorre alla protagonista per convincere i colleghi di lavoro a cambiare idea) sono decisamente evidenti i tanti giorni occorsi per la lavorazione. Infatti, anche se spesso assistiamo a due scene in successione, il taglio del sole, la caduta delle ombre, la prospettiva (al contrario dell'acconciatura della Cotillard, ricercatissima, nonostante stiamo parlando di una donna a terra, moralmente e fisicamente) denotano una sciatteria mai vista prima nei film dei Dardenne. Appare quasi come se, nel corso del girato, i due fratelli non credessero più a ciò che stavano filmando, ma dovevano "finire il film per ferree logiche contrattuali" : non è un caso, infatti, che giustificano ogni "operato" della donna, come una dipendenza dalla sua precedente depressione (l'abbondanza di pillole ingerite, la continua ricorsa ad una bottiglietta d'acqua, il sentirsi mancare l'aria, l'ossessivo riordinare in casa), e non sviluppano altre corde del personaggio (la sua contraddizione nel sentirsi colpevole di non poter tornare a lavorare, in un luogo ostile è vinta con un breve incitamento del marito in un paio di inquadrature!). L'inutile, talvolta estenuante, lunghezza di molte inquadrature, al contrario di quanto accadeva nei film precedenti, non trova qui giustificazioni, se non quella di arrivare ad una durata da lungometraggio "commerciale". Così, come in un banale blockbuster holliwoodiano, arriva il colpo di scena: senza una plausibile giustificazione, Sandra ha inghiottito una scatola di "Xamax"! E via in ospedale: paradosso tra i pradossi, nella stanzetta con le flebo, l'attrice è ancora più "patinata" che nelle scene precedenti, pulita, bella, truccata....Ritrova l'amore ? Non si sa: di certo, l'abbraccio del marito le restituisce una nuova forza: busserà agli altri colleghi, per convincerli di essere in grado di tornare a lavorare. E a questo punto, un nuovo colpo di scena: una delle colleghe le rivela che lascerà il marito. Siamo alla soap opera: Sandra la invita a dormire a casa sua, almeno per quella notte. Manierista e decotto, il film si avvia, avvitandosi sulle premesse, ad un finale scontato, furbo e oltremodo dilatato.

Tuttavia, fatta la tara ai peccati dell'opera, non me la sento di condannare definitivamente i Dardenne: in uno scenario poverissimo di  pellicole degne di nota, con il cinema di fatto ridotto a mero consumo e non più arte, questo lavoro, di transizione e ritorno alle origini, appare arricchito dalla continua voglia di rimettersi in gioco, quasi contraddittoriamente, di cercare nuove strade, magari meno ostiche e più formali, pur se frutto di una ricerca fatta di compromessi tra pubblico e critica.  E il sotteso messaggio di speranza in cui la Donna si mostra superiore a tutto, aprendosi in un sorriso non più circostanziale, carica di profonda attesa il futuro di ciascuno. Imponendosi come una nuova via nell'immaginario dei due cineasti belgi, "Due giorni una notte" scontenta gli affezionati, ma ci consegna in ogni caso un cinema che prova, battendosi con rabbia, a sentirsi ancora vivo.

 

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