Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
L’assunto di base di “Due giorni, una notte” suona come l’ipotesi di un esperimento comportamentale e, di fatto, lo è: rinunceresti ad un bonus del valore di mille euro per evitare il licenziamento di una collega? Si tratta del dilemma che un datore di lavoro, moderno Ponzio Pilato, demanda ai suoi dipendenti anzichè assumersi personalmente la responsabilità della decisione, lasciandoli così a giocarsela tra loro in una guerra tra poveri. In un atteggiamento di osservazione, oggettiva e paziente come quella di un ricercatore che prende atto di quel che si verifica sotto i suoi occhi, il film induce a porsi la domanda d’obbligo: riuscirà Sandra, la dipendente che rischia di perdere il suo posto di lavoro, a convincere la metà più uno dei suoi colleghi a votare a suo favore rinunciando al bonus?
Considerato quel che succede oggi nel mondo del lavoro non si può escludere che una circostanza del genere, ancorchè piuttosto teorica almeno nella sua elementare impostazione aut-aut, possa verificarsi realmente, ma è soprattutto come spunto di partenza di una storia che l'idea presenta il notevole vantaggio pratico di condurre immediatamente al centro della vicenda portando a uno sviluppo lineare, che procede per singoli episodi ciascuno con un risultato parziale (la reazione di ciascun dipendente interpellato), e convergendo per sommatoria verso il risultato finale.
Scontato ripetere quanta considerazione abbiamo per i fratelli Dardenne, oltre che per le pellicole importanti che li hanno resi meritatamente famosi, anche per il loro riconfermarsi autori seri, professionali e tenacemente interessati (o forse si potrebbe dire "specializzati") alla realtà dei più deboli. Non si può però non notare che il loro cinema veleggia ormai a velocità di crociera, sospinto dal vento costantemente favorevole dell’impegno sociale, e che non nasconde più del tutto una certa programmaticità, una coerenza di intenti che si autoriproduce con studiata determinazione, un’oggettività di sguardo che, facendosi segno distintivo, perde parte della sua precisione.
Il punto di forza del film è indubbiamente l’interpretazione di Marion Cotillard, brava e incantevole anche in versione working class totalmente priva di ornamenti, la sua presenza luminosa può valere da sola la visione. Bisogna inoltre rendere atto che il finale del film non è poi così scontato come si potrebbe supporre e gioca un buon effetto compensativo dopo che il cadenzato procedere della pellicola aveva fugato aspettative in termini di imprevisti.
Rimane però, come si diceva all’inizio, la sensazione di un soggetto nato in laboratorio e successivamente trasferito, con una certa freddezza, nella realtà quotidiana, senza che vi sia peraltro la volontà di approfondire seriamente tematiche legate al mondo del lavoro che non siano situazioni semplificate e archetipiche assimilabili a “mors tua vita mea”. Di riflesso il registro, diviso fra volontà di distacco e necessità di spezzare il monotono incedere per moduli ripetuti, oscilla tra minimalismo esangue e improvvise virate di tono che finiscono per stridere e risultare poco credibili (vedi le reazioni esagerate di alcuni colleghi o l’episodio che porta Sandra all’ospedale, trattato molto superficialmente sia nello svolgersi sia nella veloce risoluzione e superamento della vicenda). Nessun riconoscimento a Cannes nonostante il tema attuale e la firma illustre, non sempre la cosa è significativa ma forse in questo caso sì.
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