Regia di Carlo Vanzina vedi scheda film
“Sapore di te”, prima di essere (anche) un film dei Vanzina, è (soprattutto) la frase conclusiva di una canzone di Gino Paoli, la famosa “Sapore di sale”. La canzone, che ha segnato un’epoca, è stata la colonna sonora del bel film firmato dai figli di Steno “Sapore di mare”, che raccontava l’epopea di una generazione di italiani negli anni ’60 a Forte dei Marmi, in Versilia. Il film fu un successo, ed ancora oggi rappresenta uno dei migliori prodotti dei Vanzina.
La pochezza di idee ed il tentativo di richiamare il successo ancora vivo nella memoria, ha suggerito ai due autori romani di gettarsi in una nuova avventura con le stesse tematiche, ma ambientata 20 anni dopo. Siamo negli anni ’80, quando un gruppo sconfinato di protagonisti intreccia le proprie vicende con quelle di altri malcapitati, che in Versilia nella migliore delle ipotesi vengono cornificati (mentre quando gli va peggio vengono delusi, offesi, arrestati, rischiano la vita, addirittura muoiono).
I Vanzina conoscono bene l’epoca e la infarciscono di stereotipi: il politico (Salemme) è un socialista amico di Craxi, l’imprenditore (Mattioli) è un commerciante arrivista (e ovviamente burino), il cumenda milanese (Pucci) scimmiotta il compianto Guido Nicheli, l’aspirante soubrette (Autieri) sogna di fare “Drive in” in televisione, lo scapolone storico (Pasotti) che si converte al buon padre di famiglia, lo sciupafemmine (Conticini) è il bagnino e siamo certi che se fosse stato un thriller l’assassino sarebbe stato il maggiordomo!
Tuttavia, i punti di forza del citato “Sapore di mare” erano la coralità, la profonda matrice sociologica delle caratterizzazioni e più in generale, la bravura degli attori, non tanto per le capacità intrinseche degli stessi (De Sica, una giovanissima Ferrari, Marina Suma), bensì perché i ruoli sembravano scritti apposta per gli attori, che da questo punto di vista rappresentavano dei “caratteristi di qualità”. Elementi che qui invece non troviamo. Riguardo ai ruoli, qui sono i personaggi a provare ad essere interpretati dagli attori (gli unici per cui sembrano stati scritti i copioni ad hoc sono Maurizio Mattioli, che fa il coatto (ma quello accadrebbe anche se interpretasse Ranieri di Monaco), e soprattutto Martina Stella, che pare uscita direttamente da “L’ultimo bacio”, con quelle mossette da donnina bistrattata che sbatte i piedi a terra per la sorte tapina e imbroncia il musetto ad ogni ciak).
Il risultato è un’accozzaglia di baggianate, slegate, fasulle e anacronistiche. Per di più l’omaggio all’Italia socialista, pre-berlusconiana, dei paninari e dell’imprenditorialità rampante è trattata in maniera completamente didascalica, al limite del ridicolo, tanto che ogni citazione è annunciata a mo’ di didascalia (“Come dice Vasco Rossi…”, oppure “Come dicono i paninari…”).
La rievocazione sociale è clamorosamente sbagliata: i Vanzina riportano in chiave vintage i vizi dell’Italia del 2015 e non di quella di trent’anni prima. Un paio di esempi: la storia d’amore tra la giovane e ambiziosa Francesca (Marsan) e il chirurgo è improntata modernissimamente sul sesso in cambio di bella vita (a tal proposito si rimpiange la storia tormentata e platonica tra Virna Lisi e Gianni Ansaldi di “Sapore di mare”), così come il degrado della politica (rappresentata in una delle scene più riuscite, in cui la vecchia e la nuova guardia si trova a confronto, con l’onorevole De Marco in cerca di passera che incontra faccia a faccia il Presidente del Senato, durante una vacanza sobria ed impettita insieme all’anziana fedele moglie) è troppo in anticipo sui tempi.
Completamente sbagliati inoltre anche i costumi e le auto di scena (si vedono solo macchine d’epoca, nessun’utilitaria coeva). Le musiche non sono errate, e ci mancherebbe, ma le scelte sono indubbiamente prevedibili e scontate.
Doveva essere un compitino facile facile per i Vanzina che, come dire, giocavano in casa, e potevano sciorinare tutto il loro riconosciuto e riconoscibile repertorio (“Vacanze in America”, “Yuppies – I giovani di successo”, “Vacanze di Natale”), rischiando veramente poco. Il risultato invece è un pastrocchio demodé, talmente labile nella sceneggiatura (con personaggi che scompaiono e situazioni inverosimili) da doverla necessariamente metterla in caciara nel finale, dove anche il più attento degli spettatori rischia di perdere il bandolo. Doveroso, visti gli intenti degli autori di fare una specie di remake postdatato del film dell’’82, la scena finale coi personaggi invecchiati da parrucche e accessori da 50enni.
Una tristezza che toglie lustro anche al molto migliore archetipo, portando addirittura a rivalutare Jerry Calà e compagnia...
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