Regia di Leonardo Pieraccioni vedi scheda film
Arnaldo ha 45 anni e una vita tranquilla. Una moglie bellissima, due figlie gemelle, un lavoro sicuro, colleghi di banca come amici fraterni e un passatempo da bimbo mai cresciuto: aggiustare, in cantina, vecchi giocattoli. È una routine confortante, un sonno da cui lo sveglia un equivoco. L’amata lo crede munito di amante, lo abbandona e nella foga rabbiosa si dice felice: Arnaldo ha finalmente fatto una scelta fuori dallo stanco ordinario. Lui coglie l’occasione per ritornare ai tempi andati di coraggio e tempeste: si trasferisce in una casa di universitari, per vivere e non lasciarsi vivere soltanto. Con Genovese alla sceneggiatura invece di Veronesi, Pieraccioni ci propina puntualmente il dolciume delle feste, lontano dalle commediacce di costume di Parenti e Vanzina e dalla satira grottesca di Zalone e soliti idioti. Perché lui è sempre tenero tenero, leggero e borghesissimo, qui grillo parlante di una generazione semplificata ai minimi termini e ridotta allo svolgimento di banali temini. Concentrato sui piccoli problemi di cuore, è assolutamente inadeguato quando guarda al sociale: un esempio? Promuove l’integrazione etnica, ma l’evento dinamico (la separazione dei coniugi) è dovuto a uno stereotipo deteriore di immigrato e la risoluzione del conflitto è una mascherata offensiva. Il resto è solo bozzetto vernacolare, melassa edificante, cinema involuto su se stesso (passerella di soliti noti, autocitazioni malinconiche, una canzone per la figlia), poesia poverissima e la solita incapacità di integrare il product placement.
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