Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film
Uno dei migliori e più compatti Fassbinder. La (constatazione della) morte della borghesia affidata ad un gioco lieve e crudele.
Fassbinder non può, e non vuole, rinunciare ad affondare colpi chirurgici di rara precisione nel corpo putrefatto della sua vittima preferita: la borghesia. Vittima in fondo facile e inerte, nella ripetizione senza senso di atti e movimenti, nella continua rifrazione dei suoi appartenenti in specchi o superfici lucide, che si fanno artefici di una duplicazione di immagini (e sentimenti) già così radicati in una socialità ballerina ed ipocrita, in una leggerezza che non sa decantare a sufficienza gli atavici sensi di colpa.
Roulette cinese è un meraviglioso gioco al massacro, una lenta discesa agli inferi della scoperta di sé, e del sé che gli altri vedono. Otto persone in una villa, praticamente quattro coppie, assortite male e in continuo rimescolamento (una moglie ed un marito, i rispettivi amanti, la figlia poliomelitica e la governante sordomuta, una donna factotum dal passato oscuro e il di lei figlio con ambizioni da scrittore romantico), chiuse nelle gabbie di stanze anche interiori da cui è impossibile trovare vie di fuga (molti critici hanno legittimamente parlato di assonanze con L’angelo sterminatore e più in generale con Bunuel, in quel continuo ed insistito indugiare su circostanze aliene al filo narrativo – il mendicante finto cieco, il nome di un uomo ucciso in un recente passato, una porta chiusa, anzi no, e tuttavia destinata a chiudersi forse per sempre-), che si ritrovano (dopo una agnizione che trasforma il tradimento, ed il sesso, in una variabile impazzita e in fondo accomodante delle pulsioni erotiche) a giocare alla roulette cinese.
Il gioco è un balletto sotto forma di indovinello, che richiama l’innocente voglia di scoperta appartenente all’infanzia e che tuttavia Fassbinder trasfigura in una lenta agonia delle carni infette dei suoi esseri umani al microscopio, senza distinzione di sesso, età, ceto e famiglia. Due gruppi di quattro persone: uno di questi designa una persona appartente all’altro; l’altro ha il compito di individuare l’identità del prescelto, attraverso una serie di domande di vario tenore ed argomento che, nella risposta, rivelino indizi circa le sue caratteristiche. Al cospetto della macchina da presa, che il regista ora muove in balzi e saltelli a cogliere le repentine reazioni dei personaggi, ora congela in quadri quasi pittorici di angosciante fissità, capaci di trasmettere la palpabile e finale indicibilità delle anime borghesi, la verità si dipana, letteralmente come un gomitolo di brutta lana, i cui fili si spargono ovunque e mai più potranno essere ricomposti nella originaria fattura. Emergono gli odii ed i rancori, repressi ma nemmeno tanto, i rapporti di forza e convenienza, l’amore troppo detto per essere vero (“Lo sai che ti amo” “Sì, ma non ha importanza”), l’illusoria ricerca di una felicità che contempli apertura al nuovo e perenne ritorno al proprio bozzolo di focolare riscaldato in controluce (il film si chiude con la riproposizione della formula dei riti matrimoniali). Alla figlia malata il compito, solitario y final, di assaltare il fortino delle convinzioni borghesi, tuttavia con una latente malvagità di parole e pensiero che paiono predisporla ad un futuro di altrettanto inconsolabile infelicità. Alla fine uno sparo, che lo spettatore ode e vede, ed un altro, in campo lungo. Qualcuno è morto? Forse due? E chi esattamente? Come se avesse importanza, come se quegli otto magnifici gnomi di coerenza ed amore non fossero già morti. Una delle domande della roulette: come rappresenterebbe un pittore la persona scelta? Risposta: come un’immagine della morte interiore. Viene chiesto ad una donna se abbia capito il senso (essendo lei francese). Lei risponde semplicemente: “Lo so”.
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