Regia di Saul Dibb vedi scheda film
Prevedibilmente, Suite francese è cinema bestseller. Sorta da un "movimento" del celebre romanzo omonimo di Irène Némirovsky, la trasposizione firmata Saul Dibb (all'attivo il già senz'anima The Duchess) è impersonale, senza cuore e (f)rigido come il compitino ben eseguito di chi cerca di azzeccare tutte le note sotto lo sguardo attento dell'inflessibile maestro.
Si parla tanto di musica, e se ne fissano le immagini simboliche - il piano, gli spartiti, le dita che carezzano i tasti, l'adorabile bambina che soffia dentro il flauto -, mentre il potente score aderisce meccanicamente alle codificate logiche di genere e di "mission": la forza suggestiva nascente dalle pagine dell'opera letteraria, procede per mero accumulo, per obbligo di contratto, per imposizione.
Benché, fortunatamente, non sconfini nelle antiche lande paludose del soporifero polpettone storico-sentimentale (tutto sommato la visione è scorrevole grazie ad un buon ritmo, ad una durata opportunamente non diluita, e non si enfatizza troppo il carico melodrammatico), il film non riesce ad andare oltre la corretta, pulitissima, raffinata - programmatica - rappresentazione/ricostruzione d'epoca e dei luoghi (gli ambienti, i sentieri emozionali, i contenuti "alti").
Abbondano gli automatismi routinari, la voce fuori campo che spiega/raccorda/imposta l'azione e la scena, i caldi toni pastosi (come dire: bella fotografia, ma non significa alcunché) che stridono con la fredda, gelida p(r)osa in opera, i volti e i corpi attoriali che recitano, subendolo, il testo anziché interpretarlo, renderlo vivo.
Il racconto è fatto di amori esplosi/implosi e mai pronunciati che non vibrano di vera passione, di stagnanti note a piè di pagina sulle conseguenze tragiche causate dall'invasione e occupazione su individui e collettività, di teatri di guerra allestiti come proscenio aperto verso lo spettatore, di fatue cronache su coscienze turbate costrette ad atti terribili o contro (la propria) natura.
Oltre al prevedibile, lo sterile, l'inutile: manca il pathos, l'intensità langue, l'espressività abita altrove.
E il senso si (dis)perde tra ripetuti (studiatissimi) sguardi sofferti e scontati destini segnati, alla ricerca del colpo ad effetto. Che non c'è. Non noia quanto piuttosto indifferenza.
E poco possono gli attori, prigionieri della elegante confezione da centro commerciale: Matthias Schoenaerts (già apprezzato nel meraviglioso Un sapore di ruggine e ossa) è il più bravo assieme alla donna dalla sguardo che perfora, Kristin Scott Thomas (nell'unico momento godibile viene considerata più temibile di un nazista), mentre tra i comprimari da segnalare la presenza della Ruth Wilson di Luther e The Affair (sotto sfruttata) e gli occhi di una bruna Margot Robbie.
Infine, la protagonista, Michelle Williams, lungamente ripresa in primissimi piani, è - ça va sans dire - bellissima e sensuale (questa è pura constatazione, ma andava fatta), molto naturale, però si attesta sui toni flou della pellicola: la sua performance, tra bamboleggiamenti, espressioni manierate e pose statiche, non è per niente incisiva. Probabilmete lei per prima non ha creduto al film.
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