Regia di Fulvio Wetzl, Laura Bagnoli vedi scheda film
Prima la trama, poi il fondo è l’ultimo lavoro del regista Fulvio Wetzl, realizzato questa volta in tandem con Laura Bagnoli, delicata introspezione sulla vita e nell’arte di una pittrice di talento come Renata Pfeiffer.
Io ho avuto l'occasione (ed il piacere) di visionare la pellicola il 9 luglio scorso all’Arena di Castello (la proiezione, organizzata dalla Mediateca di Firenze, ha preceduto quella di un corto sempre realizzato da Wetzl nel 2003 con interprete principale Carlo Monni in una serata dedicata al ricordo dell'attore scomparso di recente che ha riproposto anche il film "Prima la musica, poi le parole" che nonostante sia stato realizzato oltre 13 anni fa, ha circolato troppo poco e male, ed è stato di conseguenza visto molto meno di quanto invece avrebbe meritato).
Le mie impressioni (tutte in positivo) su questo “immaginifico” viaggio nella Storia e nel tempo ripercorso in prima persona dalla stessa Pfeiffer, non possono che mettere in evidenza prima di ogni altra cosa, la sua duttile disponibilità, oltre alla straordinaria capacità che ha di “dialogare” con la cinepresa, nel mettersi praticamente a nudo e disvelare la profondità del suo straordinario mondo interiore attraverso il racconto del suo percorso non solo artistico (così ben evidenziato dalle sue “composizioni” evolutive sempre in movimento: il primo ritratto ad olio fatto proprio a sua figlia Laura di 5 anni nel 1958; la sua predilezione per gli smalti industriali poi abbandonati per le loro nocive tossicità che le hanno procurarono persino l’insorgere di un tumore fortunatamente debellato; le successive ricerche di nuovi materiali e forme; le personali idee sulla pittura che sulla scorta delle ricerche di Mondrian l’hanno portata ad avvicinarsi gradualmente a un livello sempre più raffinato di astrazione che non prescinde mai pero - come lei stessa dichiara nel film - dal dato figurativo, perché per lei “l’astratto non esiste”, che le consentiranno di raggiungere poi risultati cromatici particolarmente preziosi con i loro inusuali accostamenti e la visione traslata delle cose, influenzata non soltanto da Mondrian e Klee, a loro modo ugualmente anche se diversamente figurativi, ma anche da Picasso e Egon Schiele), ma anche umano e privato (le sue origini austriache; gli studi da ballerina classica della prima giovinezza infranti dalla guerra; il fondamentale capitolo dell’incontro con suo marito Enrico Bagnoli, uno dei grandi illustratori italiani famoso soprattutto per i non addetti ai lavori per aver disegnato per Bonelli alcuni dei più classici albi di Martin Mystere, recentemente scomparso; i sui rapporti con la madre, probabile modella nella Trieste di inizio secolo de “La donna in rosso” di Schiele; le preziosissime annotazioni sul clima culturale e politico degli anni ’30 e successivi a Milano).
La trasparente semplicità priva di orpelli delle sue parole crea infatti un rapporto empatico di straordinario impatto emotivo che ben si trasmette allo spettatore che rimane ammaliato sia dallo splendore figurativo delle sue opere, che dalla discorsiva sincerità delle sue “confessioni” davanti alla macchina da presa.
Ci troviamo insomma di fronte a una pellicola realizzata con estrema e meticolosa cura dei dettagli oltre che con un altrettanto importante e necessario trasporto "emozionale" (particolarmente originale per altro nell'impianto visivo per la maniera insolita delle “rappresentazioni” dei quadri che prendono vita sotto i nostri occhi espandendosi ben oltre i limiti ristretti della loro cornice grazie anche al magnifico lavoro “artigianale” fatto dagli autori su ogni singolo fotogramma per gli inserimenti aggiuntivi o le differenti angolazioni, ben lontano dalla freddezza teconologica della computer grafica spesso troppo perfetta da risultare priva di anima) che diventa poetico “documento” fatto non solo di immagini di rara bellezza, ma anche di musica e parole appropriate e pertinenti che mi hanno trasportato di peso in un’altra dimensione, direttamente in sella a quelle biciclette (riprese da uno dei suoi quadri più famosi) che si stagliano in primo piano fino a diventare autonomi elementi esplorativi sullo sfondo di colorati orizzonti fantasiosi e suggestivi, o mi hanno fatto librare (anche emotivamente) in alto, a sovrastare quei tramonti aranciati e rossastri fluttuando nei cieli di un azzurro talmente intenso e smagliante da diventare abbacinante, carezzato e sospinto dal vento come quell’aquilone che volteggia planando e risalendo nel suo vagabondare nello spazio alla ricerca delle opere dell’artista per riproporcele e “rivelarcele” come attraverso lo sguardo curioso e innocente di un bambino (così vicino a quello della pittrice, perchè è così che si percepisce il suo modo di scrutare la vita e l’orizzonte del domani anche alla veneranda età di 83 anni per la sua indomita voglia di nuove esperienze mai fossilizzate nella “maniera” che la porta a ricercare sempre inedite forme di rappresentazione che ci invitano ad immergerci in arcani baratri marini zeppi di impalpabili presenze o di creature all’apparenza mostruose, affascinanti come quelle di Bosch ma meno minacciose).
Sono così riuscito anche io (che di pittura forse ne so molto meno di quanto sarebbe invece necessario conoscere) ad entrare (ed apprezzare grazie al risultato altamente impattante di un percorso in crescendo sempre in "movimento" anche creativo) nel profondo della sua ispirazione più genuina (analoga come intensità e risultato a quella degli autori della pellicola) che trasforma in una dimensione di “magicità astratta” tattilmente poetica la piatta realtà della fonte di partenza che si trasfigura in sorprendente “immaginario creativo" dove anche un portone può diventare un ineguagliabile “oggetto” di espressione artistica (percepibile in tale maniera proprio attraverso le “invenzioni” di regia che ci fanno "godere" le sue opere non solo attraverso gli occhi, ma calandoci interamente dentro con l’udito – la straordinaria colonna sonora molto appropriata e corrispondente – oltre che con l’olfatto e il tatto – e non è assolutamente un paradosso perché sembra di coglierne gli odori e le fragranze e di riuscire a “toccarle” e a starci dentro, tanto sono palpitanti e vive).
Per me insomma un vero e proprio cinema a soggetto questo ritratto a tutto tondo di un’artista e di una donna – per il quale la definizione di “documentario” è decisamente riduttiva proprio per le eccezionali “qualità” comunicative di Renata Pfeiffer, e non solo dunque per la particolarità dell’impatto semplicemente visivo con il mondo “fatato” della pittrice così ben (ri)disegnato sullo schermo.
Devo ritornare però spendendo qualche parola in più, anche sull’altrettanto fondamentale contributo del “tappeto musicale” di altrettanta pregnanza creativa (vero e proprio contrappunto sonoro in stretto connubio audiovisivo, opera di Lorenzo Farolfi – in arte Lorenz), anch’esso costantemente cangiante via che la pittrice prendeva ed esplorava nuove strade ben documentate dal racconto e dalle immagini, fino a contaminarsi (nella parte conclusiva) con le sonorità più marcate e “ruggenti” del jazz e del rock utilizzate per enfatizzare la più grezza brutalità dei materiali che compongono la “costruzione” delle ultime opere della Pfeiffer (lastre di alluminio battute con la mazza, tralci di ottone e bulloni , pellicole radiografiche riciclate e riportate a nuova e differente vita con la fatica del martello e l’invenzione dell’ingegnosità estrosa). Una metodologia compositiva quella del Farolfi, che richiama alla memoria (come ispirazione e simbiosi) il ricordo - ovviamente aggiornato al presente - di alcune esperienze mutuate dalla grande stagione del cinema russo, dove appunto la musica non poteva né doveva prescindere dall’immagine, e il lavoro fra compositore e regista veniva realizzato sulla base di un comune disegno condiviso diventando di conseguenza un tutt’uno senza soluzione di continuità.
83 anni dunque quelli che si porta sulle spalle Renata Pfeiffer, ma non li dimostra proprio, non soltanto perché sotto gli inevitabili segni della vita che l’anno scalfita solo marginalmente, mantiene quasi intatta la sua antica, fiera e inalterata aristocratica bellezza, resa solo più “calma” e pacata dalla maturità, ma anche perché – come ho già detto in apertura - si conferma ancora e sempre curiosa e disponibile ad osare come se avesse vent’anni (il suo sguardo è ugualmente limpido e cristallino) e questo suo particolare “stato di grazia” che l’ha portata ad intraprendere proprio alla veneranda età degli ottant’anni (l’ultima fase della sua carriera che ha de miracoloso) un percorso faticosissimo e denso di risultati, ci fa dimenticare persino i suoi dati anagrafici. Orgogliosamente indomita e mai presuntuosa com’è ancora oggi, è capace di illuminare lo schermo con un semplice sguardo o un sorriso. Certamente consapevole di aver ormai davanti a sé poco tempo, e quindi di non volerne sprecare nemmeno un minuto, è sorprendentemente serena e tranquilla quando dichiara che in ogni caso anche se “dovesse finire così” (più che alla vita, lei si riferisce comunque alla possibilità residua di creare), considera questi ultimi due anni fra i più importanti e stimolanti della sua intera carriera artistica. Una vitalità indomita e contagiosa la sua a cui dovremmo tutti ispirarci, che conferma l’importanza di un sguardo rimasto innocente e propositivo, ancora e sempre aperto sul futuro alla scoperta di nuovi orizzonti (e non a caso – come in un virtuale passaggio del testimone - la pellicola si conclude con la piccola pronipote, figlia della figlia di sua figlia, che gattona sul pavimento della galleria che ha ospitato la sua ultima mostra antologica, e guarda con altrettanta “curiosa attenzione” la cinepresa che la riprende).
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