Regia di Maya Forbes vedi scheda film
La sensibilità interpretativa e la luminosa presenza scenica dell'intenso Mark Ruffalo permettono di deviare dalle abusate rotte indie-familiste che un'opera - "piccola", sentita (in quanto essenza d'autobiografia della stessa regista-sceneggiatrice Maya Forbes), non certo originalissima - come Infinitely Polar Bear rischia di intraprendere. Fanno persino (quasi) dimenticare la solita libera traduzione degl'italici titolisti, all'infinita ricerca di tenerezze e simpatia con le quali far abboccare il pubblico (ma questa è un'altra triste storia: l'ennesima).
Sigaretta perennemente in bocca, candido sguardo obliquo-ottuso, dosi sporadiche di litio come interlacalare tra una birra e l'altra, e una raramente controllabile tempesta comportamentale fatta di lampi d'iperattività, stasi inquietanti e tonanti esplosioni d'ira: un perfetto orso (bi)polare, Cam Stuart/Ruffalo, nelle lande urbane della Boston degli anni settanta. Passati gli acidi folli divertenti sixties, la sua natura maniacodepressiva emerge in tutta la sua gravità; e mal si concilia con moglie (nera) e due bambine "a carico" (ma il carico, pesante, è lui). Già, la famiglia. In quella Stuart - povera nonostante le ricche origini di lui - deve, giocoforza, funzionare, "al contrario": lei (Zoë Saldana) la mantiene economicamente, le figlie ne mantengono la coesione, controllare (per quanto possibile) gli schizzi comportamentali del padre.
Figura centrale e accentrante - "diversa" per ruolo, importanza (sebbene la letteratura cinematografica ne abbondi) - catturata nel preciso periodo che va dall'ennesimo blackout all'unione forzata padre-figlie mentre la madre, nell'estremo atto di assicurare al nucleo un futuro migliore, si sacrifica per andare a New York (prima un master, poi un'occupazione). Chi bada a chi? Chi ha più bisogno dell'altro? E come potranno andare le cose?
La regista-autrice (già figlia, quella maggiore, la "bianca"), consapevole di avere già le risposte, così come dei rischi (derivatività, banalità, disinteresse, retorica del ricatto, gli eccessi di sentimentalisimo ed il troppo sentire/subire l'argomento), si "limita" ad un ritratto - di famiglia, innanzitutto - semplice, lineare, conciso (un'ora e mezza di durata: una rarità, di questi tempi), evitando di scadere nella maniera o di affidarsi a della spicciola effettistica, a toni enfatici.
L'importanza, d'altronde, più che alla ricostruzione d'epoca, ed oltre che alla generale descrizione psicologica ed intima della famiglia, è per gli oggetti: vere testimonianze che legano il filo dei ricordi alla ricerca di un senso e di un - mille - perché. Fotografie, filmini super8, automobili, scaffali, cartoni, biciclette, lattine di birra, roba smontata-rimontata-smontata ovunque: un complesso (umano-identitario) inafferrabile di stramberie, gesti, (re)azioni, pensieri.
Pochi fronzoli, alla larga da (pretestuosi) sottotesti e voli pindarici teorici: la dimensione ed i tempi sono per il racconto, per i personaggi. Insomma, la regista Maya Forbes racconta una storia (la sua), alla ricerca di un delicato equilibrio che Mark Ruffalo, con la sua solida, credibilissima prova, ammanta di un alone di autenticità prezioso.
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