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In ordine di sparizione

Regia di Hans Petter Moland vedi scheda film

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La recensione su In ordine di sparizione

di EightAndHalf
6 stelle

Un bell’esempio di deciso cinismo.

 

 

Certi film dovrebbe funzionare, nel rapporto che intessono con lo spettatore, come la sindrome di Stoccolma, ovvero dovrebbero “rapire” lo spettatore, estrarlo dalla realtà concreta e immanente di ogni giorno e possibilmente farlo “innamorare” del suo rapitore (il film stesso), in maniera tale da non voler distaccarsene più. Può funzionare con qualsiasi genere di film, dal più disturbante al più edificante, anche in quei film che più realistici non si potrebbe. In Kraftidioten questa stessa sindrome viene citata da un bambino che a un certo punto del film viene rapito, in una scena (che forse pretende di essere) particolarmente spiazzante, poiché tira fuori dalla bocca di un bambino innocente questo concetto tanto particolare.

Kraftidioten, messo lì, solo nel suo titolo, sembrerebbe un prodotto Dogma. Anche solo per l’assonanza con Idioterne, e per la presenza del vontrieriano Skarsgaard. La realtà è che siamo invece dalle parti del cinema norvegese, lo stesso che produsse il deludente Nord di Rune Denstad Langlo, un cinema che nel suo piccolo cerca quell’originalità straniante che mette sul chi vive, normalmente, lo spettatore europeo, avvezzo ai festival o ai film più o meno impegnati (Kraftidioten è passato dalla Berlinale). Ma il vero elemento che spesso riesce a destabilizzare e a sconvolgere, nella visione di questi film giustamente particolari e unici (sia a livello dei contenuti, sia geograficamente, siamo dalle parti di cinema danese e finlandese), nel loro genere, è il fatto che di rado si assomigliano l’un l’altro, e nel fatto che mischiano all’interno del loro magico calderone un’infinità di generi e di cambi di tono che spesso li portano alla stregua di film indimenticabili. Forse, troppo spesso, raggiungono simile vetta in maniera forzatamente originale, ma stanno comunque lì, ad occupare un loro posto – che rimane purtroppo prestabilito.

 

Questi limiti, come questi pregi, in Kraftidioten si avvertono tutti. Il regista, Hans Petter Moland, si sarebbe potuto pure considerare esordiente, in questo suo film, per il piglio volenterosamente cinico che imprime in tutte le sue immagini e per l’entusiasmo che sembra esserci dietro una regia che si alletta fra immagini immobili e “ghiacciate” (siamo immersi nelle nevi norvegesi), e improvvisi scatti autoriali, fra ralenti e rarissime immagini quasi amatoriali in movimento. Una varietà di registro che non trova grande riscontro nell’andamento generale del film. Per tutta la sua durata si attende lo slancio, lo scatto in avanti, il balzo che possa configurarsi come vero cambiamento, vera messa in discussione. Ma il film prosegue sempre allo stesso modo, continuando proprio a mettere in discussione molte cose, a volte senza mezze misure, a volte attraverso sottili demistificazioni, sempre con la stessa verve e lo stesso modo di osservare. Se non ci fossero, paradossalmente, questi picchi autoriali frequenti e sovente affascinanti il film si scalderebbe a fuoco lento in una certa, arida, insipienza. Non basta il sangue che piace a molti e che va a macchiare il bianco estremo dei mitici e sfruttati landscapes nordici, non basta la svolta omosessuale, non bastano eventuali riferimenti alla varietà etnica degli abitanti della Norvegia (da serbi/albanesi ad orientali nevrotiche). Quei passaggi che invece funzionano sono proprio quei piccoli scossoni di discontinuità fra una sequenza e l’altra, in cui l’azione rallenta, e non si capisce se è la verità o si è, proprio, di fronte a un ralenti. L’acidità e il virtuosismo visivi, che poi concorrono alla leggera cinica irrealtà di certe sequenze (satiriche, graffianti), rendono il film discontinuo ma straordinariamente fresco, “sincero”, partorito da una mente vera ed evidentemente non alla ricerca della compiaciuta originalità.

 

Se è dunque l’andamento difforme a salvare il film dall’insignificanza lo si deve soprattutto alle varie interpretazioni degli attori e a certe sequenze a tratti esilaranti come le frequenti ridondanti regressioni riguardo lo smaltimento dei cadaveri in una cascata o l’apparizione di didascalie informative (Six Feet Under style) che rivelano chi è morto in quel momento. Peccato che già dalle prime sequenze è ben chiaro cosa si ha di fronte, e la visione non passa attraverso pieghe davvero esaltanti. Cattiveria, risvolti grotteschi, momenti straordinariamente umani, ma nessun reale personaggio (e neanche nessuna reale macchietta) la cui sparizione improvvisa possa davvero riscuotere lo sbalordimento richiesto (basti pensare alla morte di Brad Pitt in Burn After Reading, siccome i Coen vengono sempre presi in causa a sproposito). E se anche Moland ha voluto circondare la sua storia di rapporti padri-figli con questa scorza che gioca con i stereotipi ma lascia un po’ freddi come i fiordi innevati, si può apprezzare il tentativo, ma rimane un po’ irrisolto il risultato.

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