Regia di Mario Monicelli vedi scheda film
Romanzo popolare, ovvero studio di un’esistenza operaia. Monicelli – coll’apporto decisivo dei mastri sceneggiatori Age & Scarpelli – regala una lucida disamina di una famiglia operaia vista dall’interno, con un’attenzione non comune all’aderenza alla realtà fin dal linguaggio impiegato.
Ed è sì, innanzitutto, una questione privata quella che anima i conflitti del film, una “storiaccia” di corna, per così dire, che palesa il grado di ipocrisia del protagonista Giulio, di spregiudicatezza machista del poliziotto Giovanni e di iniziale arrendevolezza e influenzabilità di Vincenzina.
Epperò l’opera non si limita a questo e, oltre alla vicenda strettamente privata – che mostra già, in nuce, i segni di un ripiegamento personalistico, dopo le lotte collettive che pur vengono mostrate, alla ricerca plateale di una confortevole uniformità già dalla scelta dell’abitazione – fa emergere un ritratto stratificato e acuto della fu classe operaia.
Giustappunto «Giulio è il prototipo dell’operaio milanese, sindacalizzato e di mezza età, dotato di buonsenso e di una capacità dialettica che lo rendono un punto di riferimento naturale […] e tuttavia è ugualmente costretto a fare i conti con i propri sentimenti mostrando che “i drammi della gelosia non sono solo borghesi”, per dirla con una recensione dell’epoca che riconosce al film “una certa interessante capacità di uscire dagli scontati stereotipi della rappresentazione operaia”.
L’attenzione alla vita privata, al rapporto con la città e coi beni materiali, come già ne La classe operaia va in paradiso, costituisce una delle intuizioni più felici degli sceneggiatori» che difatti, durante i sopralluoghi, col regista, vanno «”soprattutto nelle case degli operai più che nelle fabbriche”. In questo modo, hanno raccontato, “vedemmo come vivevano, come erano, notammo l’imborghesimento di questa categoria, soprattutto in una città come Milano, in quei palazzi tutti uguali, in appartamenti tutti uguali, e persino quello che c’era dentro, tutto uguale, ripetitivo”». [ 1 ]
E proprio quest’indubbia capacità di regalare “un’immagine non ideologizzata dell’operaio” [ 2 ] fa di Romanzo popolare una sorta di straordinario documento d’epoca. E’ certo anche, ovviamente, un ottimo film che – per riprendere i fili del discorso – imbastisce, senza inutili sottolineature didascaliche, una carrellata unica dei problemi e delle epocali vicende di quel tempo, dalla persistente emigrazione al Nord (a quasi un quindicennio di distanza da Rocco e i suoi fratelli) al più o meno sotterraneo pregiudizio anti-meridionale [ 3 ], dalle difficoltà della vita operaia a quelle in generale della vita quotidiana e familiare, specie nell’adeguarsi ad un diverso zeitgeist post-Sessantotto.
Il “di più” che ne fa, per certi versi, un’opera persino presciente, sta in quanto già riportato, nella capacità di identificare le avvisaglie di un nuovo mondo, sperabilmente ancora operaio, eppur distantissimo da quello degli anni ‘50-‘60, un mondo nel quale ci si richiude sempre più in piccoli gruppi, addirittura in se stessi, perfino quando apparentemente si condividono le sfide cogli altri (in una scena Giulio redarguisce Salvatore: “Ricordati che le lotte sociali non si conquistano con l’avventurismo individuale”), e nel quale si ricerca una parvenza di benessere del tutto anonima, monotona, omologata.
Insomma, una classe operaia affatto monolitica come ancora all’epoca diversi si illudevano, una classe che non è più la “classe nazionale” che – non solo “fa sacrifici prima di tutti e per tutto” [ 4 ] – ma che è consapevole del proprio ruolo “avanguardistico”, alla testa della lotta per un futuro migliore, per una nuova fioritura e maturazione del Paese, per una nuova era di giustizia sociale e progresso, ma anzi, piuttosto, una classe che appare alquanto stanca, invecchiata, disillusa.
Mentre al di fuori molte persone paiono indifferenti o inconsapevoli (tra gli altri, Vincenzina acquisisce quella che si potrebbe definire una coscienza di classe, la consapevolezza d’essere sfruttata, soltanto dopo tutte le girandole, alla fine del film [ 5 ]).
E questo a sua volta si riflette, di nuovo, in una certa delusione e fatalismo all’interno della fabbrica, peraltro attraversata in quegli anni da fermenti per alcuni versi fin contraddittori (la microconflittualità permanente, i contrasti base-sindacato ecc.) e difficilmente governabili (indicativa la breve scena nella quale Giulio si reca dal capo per richiedere un permesso di poche ore e, pur ricevendo un rifiuto, se ne esce comunque).
Romanzo popolare non è uno dei capolavori del regista ma queste e altre tematiche che riesce ad affrontare con acume (ci si potrebbero buttare nel mucchio anche la crisi di mezza età, i conflitti intergenerazionali e le puntate polemiche contro lo sperpero di risorse pubbliche per opere inutili, in ossequio a logiche clientelari) e la forma scelta per nulla scontata e spesso spassosissima (impagabili i momenti nei quali il protagonista stoppa la narrazione per “riavvolgere il nastro” e sottolineare i momenti clou, quando comincia a “tagliarsi i coglioni da solo”) ne fanno senza dubbio un film d’eccezione.
E poi basterebbero a consigliarne la visione, in ordine: la recitazione (Tognazzi, ça va sans dire, primeggia ed è credibilissimo nei panni dell’attempato operaio milanese, ma Monicelli riesce a far recitare discretamente pure la Muti); i dialoghi ricolmi di battute memorabili e fulminanti à la Age & Scarpelli (oltre a quelle già menzionate, come non ricordare l’esilarante “si vede che sono state le corna” quando si prende una cragnata contro i fili per i panni); la colonna sonora di Jannacci (che ha dato il suo contributo – con Beppe Viola – alla resa dei dialoghi in milanese doc).
L’insieme di questi fattori (con l’aggiunta della fotografia di Kuveiller e della scenografia di Baraldi che danno il senso quasi tangibile di una Milano fredda, respingente, cupa e affatto accogliente) fanno di Romanzo popolare una davvero credibilissima epopea popolare, in grado di dire (più che) qualcosa sull’epoca in cui è stata realizzata ma anche su dove ci si stesse avviando.
[ 1 ] A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2006, p. 222, citando, per la recensione d’epoca: S. Petraglia, Romanzo popolare, in “Ombre rosse”, luglio 1975, pp. 9-10; mentre, per le parole di Age, Scarpelli e Monicelli: F. Faldini, G. Fofi, Il cinema italiano d’oggi, 1970-1984, raccontato dai suoi protagonisti, Milano, Mondadori, 1984, pp. 171-2.
[ 2 ] Ibid.
[ 3 ] Alcune battute sono emblematiche. Giulio al figlioletto: “Non piangere, sono solo dei terroni, mica l’uomo nero”. E al collega Salvatore: “Ueh, siamo negli anni ‘70, mi meraviglio di te, trent’anni che stai a Milano, ma come!, ti abbiamo dato un lavoro, un’educazione settentrionale e al momento della verità salti fuori con la vendetta personale, con la violenza, ma dico scherziamo!”
[ 4 ] Come recita una vignetta di Alfredo Chiappori riportata anche a pag. 252 del Tute blu sopraccitato: “Siamo i primi a fare sacrifici per la crisi energetica, siamo i primi a fare sacrifici per l’inflazione, siamo i primi a fare sacrifici per tutto” | “Poche storie, è il primato della classe operaia!”
[ 5 ] Qualcosa di simile viene notato anche nella soprammenzionata recensione di S. Petraglia.
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