Regia di Luigi Zampa vedi scheda film
In ricordo di Gina Lollobrigida, qui in uno dei suoi migliori ruoli drammatici nella parte di Adriana Silenzi, la Romana di Moravia portata sul grade schermo da Luigi Zampa in un convincente dramma.
Adriana e i suoi uomini: maschi mascalzoni che le ronzano attorno e spasimano, mentono, seducono, rubano, tradiscono, uccidono e si uccidono, ma sembrano tutti incapaci di darle quell'amore e quella sicurezza a cui ha sempre invano aspirato.
Nella trasposizione cinematografica di Luigi Zampa del celebre romanzo di Alberto Moravia, Adriana Silenzi (Gina Lollobrigida) è una bella ragazza della Roma fascista che la madre arrivista porta a posare nuda nello studio di un pittore. Viene corteggiata da un autista, Gino, che la madre osteggia in quanto “morto di fame”, e poi da un sottogerarca fascista, Astarita, che vuole farne la sua amante. Adriana lo respinge e si illude sognando una vita di tranquillità famigliare come mogliettina borghese, ma il sogno viene mandato in pezzi dalle bugie di Gino, che si scopre essere già sposato e con figlia ad Orvieto. Delusa e amareggiata, Adriana finisce per ridursi a “fare la vita“, cioè a prostituirsi, e a frequentare Sonzogno, un bruto ben poco raccomandabile, rapinatore e assassino. Solo l'incontro con lo studente antifascista Mino sembra regalarle una rinnovata speranza di un amore sincero, ma il giovane è roso dalle sue insicurezze e, dopo aver fatto i nomi dei compagni durante un interrogatorio, dai sensi di colpa e dal disprezzo per la propria vigliaccheria.
All'uscita, oltre a doversi scontrare con la censura, il film non fu ben accolto dalla critica che lo considerò una mezza delusione, nonostante una sceneggiatura opera di Zampa con lo stesso Alberto Moravia e due altri grandi scrittori del dopoguerra: Giorgio Bassani e Ennio Flaiano.
Io invece lo giudico un dramma ben riuscito, confezionato con mano quasi sempre felice e taglio introspettivo da Zampa. Tolto qualche passaggio un po' meccanico e sbrigativo, la pellicola quasi sempre coinvolge e appassiona, con sequenze ben girate, dal lancio dei volantini durante il cinegiornale propagandistico, all'inseguimento dell'ascensore nella tromba delle scale, al prefinale all'obitorio, giovandosi di una bella fotografia in bianco e nero. L'autore sposa la trama melo sulle disgrazie sentimentali di una donna sventurata e perduta con elementi di noir, dato il contesto di crimine, comune e politico, in cui Adriana si trova invischiata dai suoi spasimanti. L'elemento politico non è affrontato se non per quanto influisce sulle vicende private della protagonista, e questa omissione venne rimproverata a Zampa dalla critica, seppure io non la ritenga una mancanza grave in un film chiaramente incentrato su una storia individuale e non quella collettiva dell'Italia fascista.
La presenza di penne sopraffine alla sceneggiatura si nota in una scrittura molto ben rifinita nei dialoghi che, nonostante qualche passaggio affidato alla voce narrante della protagonista, non assume un tono eccessivamente “libresco”. L'aderenza al romanzo, che alcuni critici giudicarono eccessiva sudditanza alla fonte letteraria, venne invece rivendicata da Zampa che commentò «fosse un romanzo da quattro soldi il regista ne fa quello che vuole, ma di fronte ad un'opera come questa di Moravia bisogna agire con cautela e rispetto massimo del testo».
Tra i personaggi maschili i più approfonditi sono quello di Gino (lo interpreta Franco Fabrizi), che già alla prima apparizione racconta una bugia millantando essere il proprietario della macchina invece dell'autista, un campanello d'allarme sul suo carattere che l'ingenua ragazza non era ancora in grado di cogliere, e quello di Mino (Daniel Gélin), l'intellettuale troppo tormentato che la colpisce con la sua spicata sensibilità che però nasconde una fragilità fatale. Il fascista Astarita è meno sviluppato, mentre il rapinatore Sonzongno è monodimensionale nella sua maschera di ottuso manesco con la faccia da pugile.
La Romana è un film che si schiera senza remore dalla parte della sua protagonista, nonostante la scelta di una vita “dissoluta“ condannata dalla morale corrente, cercando di indagare le ragioni profonde della sua caduta. A partire dal rapporto con la cinica e implacabile madre, interpretata da Pina Piovani, che subordina ogni aspirazione della ragazza all'ascesa sociale da perseguire a tutti i costi: significativa è la scena in cui la mamma tira addirittura un paio di forbici contro la figlia che ha commesso l'imperdonabile errore di fidanzarsi con un uomo di umile posizione e la successiva tirata sulla “morale” che riserva a Gino la prima volta che si presenta a pranzo. E nel finale aperto celebra la forza di Adriana, unica sopravvissuta che ancora non rinuncia a sperare che la futura figlia che nascerà “a differenza di me avesse una vita allegra e felice”.
La Lollobrigida dà un'ottima prova in un ruolo drammatico ben lontano dall'incontenibile “bersagliera” di Comencini che l'anno prima l'aveva resa una stella della commedia italiana. La sua prorompente bellezza è adatta al ruolo di un ragazza paradossalmente rovinata proprio dalla sua avvenenza che attirava uomini sbagliati. Ma l'attrice recentemente scomparsa dimostra qui anche le sue doti di interprete capace di introspezione e complessità nella caratterizzazione di un' Adriana dapprima ingenua e poi disillusa, capace di freddo cinismo e di sincero pentimento, provata dalla vita ma mai disperata né ridotta a vittima, sostenendo in maniera convincente un film imperniato, dalla prima all'ultima scena, sul suo personaggio.
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