Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Il film del cazzo, Kim Ki- duk mira alle parti basse.
Il cazzo è il perno attorno il quale gira il mondo di Kim Ki-duk. Un mondo muto e genitale i cui unici suoni sono quelli dei mugolii, delle urla, dei pianti. Dei sospiri e delle disperazioni. Degli orgasmi sofferti , delle coltellate laceranti, delle amputazioni. Il cazzo, perno attorno al quale il mondo gira in ossequio alla sua potenza e verso il quale si inchina ogni pulsione umana.
Lei adora il cazzo e lui glielo nega e la tradisce donando la sua verga di carne ad una rivale che con gaudio, si riempie di soddisfazione. La negazione della turgida stele scatena la reazione della donna che mira ad amputare il membro della discordia. Poi, vista sopraffatta dalla forza fisica del maschio, decide di amputare il cazzo del figlio adolescente. Il frutto del cazzo del marito, espressione di virilità e anch’esso maschio, portatore di potere totemico e per questo colpevole. Poi lo mangia. E il cazzo ritorna da dove era venuto, estrema espressione del complesso edipico nel quale l’atto di mangiare è il climax della sessualità.
Ed è così, tra cazzi amputati e riattaccati, erezioni anelate, incesti e simulazione di coiti, orgasmi ritrovati con dolore, si scivola verso la tragedia totale. Verso quell’adorazione del cazzo visto come un dio pagano capace di chiedere cose inenarrabili ai suoi adepti.
E’ un circolo chiuso , vizioso, quello che vede i protagonisti contorcersi nel dolore dell’esistenza per poi tornare inevitabilmente al punto di partenza. Il senso del titolo, Moebius, lo si deve proprio al concetto infinito del “nastro di Moebius” dal matematico tedesco che inventò la figura geometrica del nastro senza fine, attorcigliato su se stesso di 180 gradi.
Ma ‘ndo vai se la banana nun ce l’hai
Amore di genitore e amore genitale si scambiano di ruolo. La donna isterica che ha privato l’uomo del simbolo della propria potenza, si è autopunita anch’essa poiché rimasta senza cazzo. E non sa più dove sbattere la testa e l’inguine.
I personaggi sono alla perpetua ricerca di piacere, un orgasmo liberatorio, pulsione di morte e generatore di vita. Venire fuori da se stessi, sbattere, essere sbattuti, una costante, disperata, violenza innerva il quadro dove in interni alternati i protagonisti si scambiano umori, dolori, lacrime e sangue. Il delicato equilibrio che mantiene in vita le persone è rotto dalla prima evirazione, equilibrio che viene a mancare anche alle riprese del regista che abbandona la forma adottata nei suoi film precedenti per un quadro a volte fuori asse, nervoso, tremolante. L’uso dello zoom che si avvicina e allontana dai volti è espediente per donare un falso movimento alla storia, ambiguità che regna nelle pulsioni di tutti i personaggi.
Senza nome, senza voce, senza una via d’uscita. Non esistono astrazioni intellettuali per questo film del cazzo. Poiché è Lui il protagonista, quello che non si vede mai, come un turgido Godot in una rappresentazione affine al teatro del dolore, sospeso tra crudeltà e poesia nell’abisso del disagio esistenziale.
Picchia duro Moebius, sprofonda nel Maelström di brutali passioni, disgusta e diverte, iperbolico e ironico mastica ogni manifestazione umana del rapporto psichico con i genitali, intimo luogo di sacralità e peccato. Il cazzo è il vero organo pensante.
Il film è stato presentato alla settantesima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia in versione uncut, fuori concorso, l’anno dopo la vittoria del maestro coreano con Pieta. La versione vista in sala invece è quella internazionale, epurata dai particolari scabrosi. Evirato anche il film della sua potenza in tagli arbitrari e poco curati, il film inevitabilmente si affloscia nell’invidia del pene rimosso. In pratica non si vede nulla. Anzi, non si vede proprio un cazzo.
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